Anno 1 - N. 2 / 2002
UN PARTICOLARE TERRITORIO D’ACQUA
IL PAESAGGIO DELLA RISAIA
Il canto della mondina
di Daniele Garnerone
Cascina Luisola, Vernate, Milano
Piattezza, dimensione dilatata, vista a perdita d’occhio sono caratteri tipici della Pianura Padana. Si aggiunga a questi un elemento, l’acqua, non solo quella che percorre in abbondanza la fitta trama di canali, rogge e fossi ma, in questo caso, soprattutto, quella distribuita, diffusa e quasi lasciata a riposare sulle campagne preparate ad arte, sì da trasformarle in un geometrico acquitrino, sempre più grande da divenire così vasto e dilatato da sembrare un mare. Un mare di risaie, appunto.
E’ questo un paesaggio molto specializzato, diverso da qualsiasi altro per la diversa impronta lasciata dall’attività umana; un paesaggio che, soprattutto dove permane uniforme e dominante, può apparire monotono e triste, se ci si limita ad una osservazione superficiale, cogliendo solo le “sfumature” e non già l’essenza stessa della coltura del riso, vincolata alla continua presenza dell’acqua.
Dalla Bassa milanese alla Lomellina, dalla pianura vercellese sino alle propaggini collinari del Monferrato, ogni anno, per un certo periodo – e solo in quello – le risaie allagate sono uno “spettacolo naturale”, la cui diversità risulta eccezionale in territori in cui paesaggio agrario e paesaggio urbano sempre meno si leggono come distinti, separati e finiti. Un paesaggio caratterizzato dalla presenza del canale irriguo, del fosso, dell’argine, costruito anche con gli allineamenti a filare di alberi, quasi sempre d’alto fusto, spesso pioppi amanti dell’acqua e dell’umido, a formare quello che è definito “bocage all’italiana”.
La risicoltura si è affermata nella Pianura Padana dilatandosi ed acquisendo una notevole specializzazione, non solo per le idonee condizioni geo-morfologiche e climatiche ma anche, e soprattutto, per lo sviluppo di una efficiente rete irrigua strutturata in tutta la sua estensione già a partire dall’Ottocento. Scrive in proposito il Sereni: “In larghi settori della Pianura Padana, così, dalla seconda metà del Settecento alla prima metà dell’Ottocento, i progressi nella diffusione della risaia e del prato irriguo divengono gli agenti di una vera e propria rivoluzione agronomica, che induce anche nella tessitura del paesaggio agrario profonde trasformazioni” (1).
La coltura del riso nella Bassa, soprattutto nel vercellese e nella Lomellina, ancor oggi co- stuisce un aspetto di notevole caratterizzazione del paesaggio, così forte da identificarne il territorio. Dalla fine di marzo ai primi di ottobre la campagna cambia profondamente aspetto, assumendo forma e colori diversi. Ha il colore brunito della terra al momento della semina poi, nel volgere di pochi giorni, è allagata ed ogni campo è una tessera d’acqua in un grande mosaico.
Con la prima crescita il paesaggio lagunare assume toni e sfumature verdeggianti che si fanno sempre più intense, sino a che diviene predominante il verde smagliante quando il riso si fa più alto e robusto; le piantine, ondeggiando lievemente ad ogni alito di vento, cambiano tonalità.
Viene poi il sole estivo e, quando l’aria si fa pesante per l’afa, il riso sfuma sempre più verso il giallo delle spighe mature, più alte e pesanti da chinarsi sotto il peso stesso dei chicchi. Al tempo della mietitura, quando ormai la risaia è lasciata all’asciutto, il riso assume un colore giallo-ocra intenso che, dopo il taglio, verrà meno solo in parte, restando sui campi le stoppie, spesso date alle fiamme secondo un’antica usanza, altrimenti esposte per tutta la stagione invernale al gelo e alla neve.
Ben prima che lo si coltivasse, il riso era presente in Italia attraverso gli scambi commerciali con gli speziali. Le tracce risalgono al 1300, ma presumiamo che un attivo commercio fosse già di molto anteriore, con un centro principale ad Alessandria d’Egitto, grande emporio delle spezie orientali. Scarsa comunque la sua importanza se rapportata alle merci di scambio, pepe e cannella ed altre spezie. Nella tariffa daziaria del milanese del 1340 il riso era molto quotato e pare lo si importasse assieme alle spezie dall’Asia, attraverso la Grecia. I più antichi documenti da cui risulta la messa a coltura del riso in Italia sono riferibili alla seconda metà del XV secolo, cioè ad un’epoca relativamente vicina a noi se comparata alla millenaria cultura delle civiltà orien- tali.
Molte sono le tesi sostenute da storici e studiosi di agraria – Verri, Betti 1783, De Gregory 1818, Cherubini 1826, Motta,1913 (2) – elaborate nel corso degli ultimi due secoli che, se messe a confronto, restituiscono una certa labilità. Mancano del tutto notizie sul riso per l’intero XIV secolo, tanto che il massimo storico di agraria del ‘300, Pier De Crescenzi, non cita il cereale nel pur affollatissimo suo campionario di piante (3). La tesi che attribuisce agli Arabi la diffusione del riso in Sicilia, prima che nell’Italia continentale, ha avuto molti proseliti, suffragata dal presuppo- sto – ampiamente verificato – che gli Arabi furono pionieri nella diffusione di colture nell’area mediterranea (4).
La coltura del riso tra il Piemonte orientale e la Lombardia prese forma dopo il 1450; per volontà del Duca Galeazzo Maria Sforza fu avviata la sua diffusione nelle campagne della Lomellina. Un manoscritto del 1475 documenta l’esportazione del riso a Ferrara da parte del Duca (5).
L’agricoltura moderna si struttura in Italia con la coltivazione su grande scala del mais e del riso, avviata presumibilmente a partire dalla seconda metà del XVI secolo; il riso fu introdotto nelle campagne della pianura nella forma della risaia stabile, impiantata soprattutto su terreni acquitrinosi, malsani e, in definitiva, inadatti ad ospitare altre colture. Qui la risicoltura rivestì un ruolo di primaria importanza, sia in termini economici ed alimentari, sia per la profonda incisione nelle forme del paesaggio agrario della pianura irrigua, derivata da un complesso di opere attraverso fasi accurate e precise per le quali, se una volta era necessaria la forza di molte braccia, non di meno oggi attrezzature meccaniche appropriate ed elevata capacità tecnica sono indispensabili per il buon governo della risaia, per livellare alla perfezione le campagne, sicché la orizzontalità delle singole particelle non venga mai meno. Anche per questa complessità d’opera, un tempo vasti territori contigui erano destinati a risaia stabile, subentrando solo in seguito - con la progressiva meccanizzazione delle opera- zioni - la vicenda della risaia con altre colture cerealicole e foraggere.
Il ciclo vegetativo della risaia si compie nell’arco di cinque/sei mesi e necessita di continua assistenza, anche se – evidentemente – in minor misura ed in forma diversa rispetto al passato.
Dapprima è d’obbligo la preparazione del terreno – quello più adatto è argilloso, ma il riso si impianta anche su suoli sabbiosi e torbosi – che viene opportunamente arato; poi, non essendo ancora pronto a ricevere la concimazione, è necessario erpicare la terra, frangere le zolle e compattare il fondo, affinché si migliori la tenuta all’acqua.
Una fase importante è la costruzione degli argini a delimitare le camere, ricondotte a forme pressoché quadrangolari e di dimensioni variabili da un ettaro (15 pertiche milanesi circa) a sette (105 p.m. ca.); sulla superficie delle singole camere sono poi tracciati dei solchi longitudinali, affinché sia favorita la regolare distribuzione dell’acqua.
Un tempo l’aspetto della risaia era fortemente caratterizzato dall’irregolarità delle camere, con argini più spesso “tormentati” e sinuosi a seguire le ondulazioni del terreno; i continui interventi di livellamento e di accorpamento delle terre hanno razionalizzato la geometrica struttura dei campi, accentuandone l’ortogonalità e l’estensione. Rimangono, tuttavia, in taluni ambiti territoriali situazioni di pressoché perfetta rispondenza con la forma storica del paesaggio della risaia, soprattutto laddove gli interventi di adeguamento dei fondi alle esigenze aziendali non hanno comportato l’abbattimento dei filari di alberi lungo argini e confini poderali.
Fatte le concimazioni si procede con la semina che avviene a primavera, generalmente nel mese di aprile. Dopo, l’acqua va sul riso. Il riso ha bisogno di questo; richiede una notevo-le umidità per crescere e svilupparsi, un velo d’acqua che lo ricopra costantemente per quasi tutti i mesi del ciclo vegetativo. Ed è in questo momento, in questa prima fase che le risaie allagate sono uno “spettacolo” unico, un paesaggio di grande suggestione che si rivela come un grande e geometrico acquitrinio, suddiviso da minuti argini di terra che si allungano a fior d’acqua, mentre strade campestri, rogge, filari di pioppi ondeggianti, cascine e nuclei rurali aggregati emergono quasi sospesi ed isolati sull’immensa distesa d’acqua.
Il plurisecolare lavoro attraverso il quale si è data forma alla coltura del riso è indubbiamente una delle più forti espressioni del paesaggio agrario della Pianura Padana, una unità territoriale costruita attraverso l’integrazione di architetture ed elementi “naturali/artificiali” riconducibili alla continuità degli elementi fondamentali – acqua-terra, vegetazione ed inse- diamenti umani – della pianura irrigua. Una unità territoriale sancita incisivamente dal geografo Lorenzi come “la grande palude artificiale” (6).
Dunque un paesaggio ed una architettura d’acqua – si pensi al termine “camere” con cui si individuano le singole particelle che costitui- scono la risaia – l’acqua “imbrigliata” dalle arginature e distribuita su una superficie vastissima – come nel vercellese – che determina l’aspetto peculiare della pianura del riso.
Tra gli argini l’acqua che va sul riso al tempo della semina determina un microclima (20/25 gradi) idoneo alla germinazione e crescita del cereale; l’acqua non è stagnante come in una palude, ma scorre e lentamente si muove da una camera all’altra posta ad un livel- lo inferiore, debordando dai “gradini” che delimitano i piani del terreno, così sistemati da generazioni di lavoro.
Negli argini sono aperti piccoli varchi attraverso i quali l’acqua defluisce da un piano all’altro, distribuendosi così equamente su migliaia e migliaia di ettari di campagna. Un movimento impercettibile, discreto, silenzioso, coperto da quello predominante delle ben più veloci e fredde acque delle rogge; esso è necessariamente lento, affinché non risulti ostacolata la crescita e danneggiate le piantine, ma indi- spensabile per evitare il malsano ristagno dell’acqua – nelle acque stagnanti prospera la zanzara anofele – come ben documentato nei se- coli (7).
Quando il riso ha più o meno 50 giorni si procede con il diserbo – generalmente realizzato in due fasi – per le erbe infestanti, in primo luogo per il giavone (per il quale si interviene anche prima della semina), poi, a giugno, per altre erbe nocive come il cipollino. Dopo i diserbi la risaia prosegue il suo ciclo vegetativo sino alla completa maturazione del cereale. Verso la fine dell’estate, quando diventa di un bel giallo carico e le spighe sono mature, la mietitrebbia va sul riso e lo taglia; il risone così ottenuto viene essiccato, quindi trasferito nei magazzini di stoccaggio dell’Ente Nazionale Risi.
Il ciclo legato all’acqua si conclude solo in occasione dell’operazione finale, quando cioè, circa due settimane prima del taglio del riso, è interrotta l’immissione di acqua nella risaia, progressivamente lasciata all’asciutto.
Questa perfetta organizzazione nel piano delle camere e degli argini ed il razionale sistema di distribuzione dell’acqua costituiscono l’anima e la storia di una civiltà contadina ita-liana legata alla produzione del riso, nel tempo feconda di lavoro e di alimenti, di momenti intensi di sentimento ed ispirazione (8), di enormi fatiche e di sfruttamento.
La stagione delle mondine, quasi un’epo- pea, fu dentro la vicenda del riso e caratterizzò la pianura irrigua sino ad oltre la metà del se- colo scorso con lo spostamento stagionale di migliaia di donne provenienti da diverse province e smistate nelle cascine a lavorare al trapianto ed alla monda. La meccanizzazione e l’automazione di cicli produttivi nelle campagne ha determinato il superamento delle operazioni manuali che per decenni avevano coinvolto tutta la manodopera disponibile nella Pianura Padana (9).
Il sistema del trapianto, praticato da secoli nell’Estremo Oriente, fu introdotto in Italia all’inizio del secolo scorso. Questa pratica consentiva di ricavare, prima del trapianto, un raccolto di maneggio, di erba medica o di frumento dalla stessa campagna nella quale si mettevano a dimora le pianticelle di riso; queste erano coltivate in appositi semenzai e poi, tra maggio e giugno, trapiantate a mano – anche a macchina, negli ultimi anni in cui si praticò il trapianto – a mazzetti, nelle risaie già allagate.
Questo sistema consentiva altresì rese unitarie molto alte, con colture selezionate e qua- litativamente superiori, una riduzione netta della presenza di erbe infestanti e, conseguentemente, delle operazioni di monda. Ciò era contrapposto alla complessità delle opera- zioni di trapianto che richiedevano comunque un notevole apporto di manodopera.
Col trapianto era dunque possibile elimi- nare almeno una operazione di monda. A questo lavoro, lungo, ingrato e molto faticoso, erano dedite quasi esclusivamente le donne (dai dati di una inchiesta del 1903, l’81,3% erano donne – prevalentemente dai 18 ai 22 anni – e bambini, tali considerando i minori di quattordici anni) provenienti da una trentina di province del centro-nord d’Italia (nel 1950 erano oltre 140.000) (10).
Le mondine entravano in risaia, vi restavano ore ed ore sotto il sole cocente, curve da spezzar la schiena, piedi e mani nell’acqua e nel fango a strappare le erbe cattive. Ad una prima monda ne seguiva un’altra circa tre settimane dopo e, spesso, una terza, più tardi. Un lavoro duro, pesante, indicato come termine di paragone dispregiativo – ancora oggi è d’uso dire a persona fastidiosa “vot andà a mundà el ris?” (vuoi andare a mondare il riso?) – fatto con umilità per guadagnare pochi soldi, un aiuto alla famiglia numerosa e lontana.
E alla fatica spesso si accompagnava la voglia di cambiare, di vivere meglio; attimi di spensieratezza, magari solo un palliativo, di cui conserviamo un ricordo nella moltitudine di quelle giovani mondine, della loro forza d’animo, dei loro canti e della esuberante vitalità che trasformava l’immagine calma e silenziosa della risaia in una goliardia di canti gioiosi (11).
Ma c’erano, ben più forti, la fatica ed il dolore; soprattutto il pensiero e la lontananza da casa. Anche il taglio del riso richiedeva molta mano d’opera stagionale – anche se in misura minore – e generava spostamenti stagionali di forza lavoro. Spostamenti che, da una fase di incremento a partire dalla fine dell’Ottocento, conobbero il massimo sviluppo nei primi anni ’50 del secolo scorso, diminuendo poi progressivamente in concomitanza con i processi di meccanizzazione, razionalizzazione e riorganizzazione dell’agricoltura, sino a scomparire quasi del tutto in questi ultimi decenni.
Abbandonato il sistema del trapianto, anche la figura della mondariso è stata sostituita, superata negli anni Sessanta quando, con l’introduzione dei pesticidi di sintesi, fu riconosciuta sempre più fiducia e credito ai processi di diserbo chimico.
All’efficacia del diserbo chimico si è però ben presto accompagnata la loro nocività per l’equilibrio ambientale ed ecologico, tanto più elevata quanto più esteso e massimo è stato l’impiego di prodotti diserbanti e pesticidi, con gravi danni ad ogni livello della catena alimentare, al cui culmine è, naturalmente, l’uomo.
La monocoltura intensiva e l’intenso sfruttamento del terreno con l’abbandono delle rotazioni agrarie, congiuntamente alla diffusione in gran quantità di anticrittogamici, diserbanti ed insetticidi sulle colture, hanno indotto una estrema semplificazione ed impoverimento dell’ecosistema della risaia, la drastica riduzione delle specie animali tipiche di questo ambiente (dalle rane alle carpe, agli aironi), l’aumento senza autocontrollo demografico di infestanti per l’avvenuta rottura dell’equilibrio biologico (13).
E se una ridotta, parzialissima inversione di tendenza la si può registrare nel dibattito sempre più di dominio pubblico sull’uso ed abuso di diserbanti nel tentativo di conquistare spazio e credibilità per una agricoltura alternativa – con le aziende che hanno eliminato i fitofarmaci dai processi produttivi o attraverso il recupero, limitato, molto limitato, di una ma-nodopera manuale nelle operazioni di monda del riso, con il ritorno di alcune centinaia di donne nel novarese e, soprattutto, nel vercellese – è solo incentivando e sostenendo con forza metodi colturali più vicini ai cicli biologici naturali che sarà possibile limitare i problemi ambientali indotti dalla moderna agricoltura.
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