Anno 5 - N. 15/ 2006
La vaccinazione antivaiolosa tra storia e poesia
Nel settembre del 1767 i Mozart si trovavano a Vienna quando scoppiò un’epidemia di vaiolo...
di Giulio Cesare Maggi
Triomphe de lo petit verole
Nel mese di febbraio del 1767 Leopold Mozart fu consigliato dal medico di famiglia a far sottoporre il figlio Wolfgang Amadé con la sorella Nannerl all’inoculo del vaiolo. La malattia era allora epidemica in Europa con mortalità elevata: Leopold, che si piccava di avere delle cognizioni mediche avendo frequentato a Salisburgo qualche corso presso quella Facoltà Medica, non volle seguire questo saggio suggerimento. Scriveva infatti in una sua lettera: “Lascio il destino nelle mani di Dio, al quale solo sta far vivere questo miracolo della natura, così come l’ha inviato”.
In un mio scritto “L’enigma della morte di Wolfgang Amadé Mozart” (1997) sottolineavo come si parlasse di inoculo del vaiolo già nel 1764, quando Jenner era ancora studente di medicina.
In realtà la storia della vaiolizzazione quale pratica profilattica inizia assai prima della vaccinazione jenneriana. Fin dai tempi antichi i Cinesi praticavano l’inoculo di pus o di materiale crostoso delle pustole vaiolose quale misura profilattica verso la malattia e pare con discreto successo. E il medico greco Emanuele Timoni ci informa (1713) che le belle donne Circasse si praticavano piccole punture con aghi intinti in materiale pustoloso fresco, possibilmente in zone cutanee nascoste, evitando così le lesioni cicatriziali permanenti della malattia vaiolosa.
Lady Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese presso la Sublime Porta, all’inizio del ‘700 riferiva che in quel Paese si usava la vaiolizzazione per via venosa con materiale pustoloso umano, il che sviluppava una malattia vaiolosa in forma attenuata ed in ogni caso mai mortale: il metodo fu adottato presso la famiglia regnante inglese dell’epoca.
Fautore di questo metodo fu il medico ginevrino Teodoro Tronchin (1709-1781). Particolarmente attivo in questo senso fu il medico pisano Angelo Gatti (1730-1798), che operò soprattutto in Francia, ideatore di un sistema di innesto con aghi sottilissimi intinti in quantità minimali di pus vaioloso umano o in materiale crostoso finemente polverizzato. Gatti pubblicò i risultati dei suoi studi a Parigi e a Bruxelles tra il 1763 ed il 1767: gli scritti ebbero straordinaria accoglienza e i tre volumi furono tradotti in inglese, italiano e tedesco. Una iniziale ostilità da parte dell’Accademia fu brillantemente superata, tanto che il Gatti fu invitato dal governo francese a trattare tutti i giovani dell’école Militaire di Parigi. Punto centrale della prevenzione, secondo Gatti, restava l’uso di dosi minime di materiale infettante umano.
La diffusione dell’opera di Angelo Gatti fu probabilmente alla base del suggerimento del medico salisburghese della famiglia Mozart a vaiolizzare Wolfgang e la sorella.
Nel settembre del 1767 i Mozart si trovavano a Vienna quando scoppiò un’epidemia di vaiolo. Essi ripararono a Olmütz in Moravia, regione che al momento sembrava indenne dal contagio. In realtà prima Wolfgang e poi Nannerl contrassero la malattia, fortunatamente in forma lieve. Leopold al solito somministrò i suoi medicamenti preferiti, la Margrafenpulver e la Schwarzpulver: poi fortunatamente intervenne un vero medico, il Dr. Wolff.
Il viso dei due ragazzi restò butterato per sempre e i segni rimasero impressi anche sulla maschera mortuaria del genio salisburghese, che per questo avrebbe dovuto ringraziare il testardo Leopold.
La diffusione del metodo in Italia avvenne ad opera del Targioni Tozzetti a Firenze, del Paitoni a Venezia, del Porta a Milano, del Sarcone a Napoli: e fu più rapida in Italia e in Francia che negli altri Paesi europei.
A questo proposito si potrà qui ricordare l’ode di Giuseppe Parini “L’innesto del vaiuolo” pubblicata a ricordo della guarigione dell’allievo prediletto Carlo Imbonati, futuro amico di Giulia Beccaria, madre di Alessandro Manzoni. L’Imbonati fu guarito dal vaiolo dallo zio Dr. Bicetti nel 1765. Bicetti era un valente medico che aveva ricevuto per i suoi studi sul vaiolo e sulla sua prevenzione un premio di 100 zecchini gigliati d’oro da Maria Teresa, quale contributo alla lotta contro la malattia vaiolosa.
“Mentre geme e langue
Sotto morbo fatal l’unico amato
Germe maschio della prosapia illustre
colpa del secol pigro al fido innesto”
scriveva il Bicetti, miglior medico che poeta, dice giustamente il Carducci.
Il Parini dedicò l’ode, in versi sciolti, al Bicetti ed essa comparve in prefazione ad un lavoro del medico, relativo ad osservazioni su alcuni innesti di vaiolo, pubblicato appunto nel 1765.
“I crin, che in rete accolti,
Lunga stagion ahi foro,
Qual ruscelletto d’oro
Forma attendon novella
D’artificiose anella”
canta il Parini, felice per l’allievo risanato! E, a plauso della scienza, non sempre compresa, aggiunge:
“Sempre il nuovo ch’è grande
Appar menzogna”
a causa de
“La superstizion del ver nemica”
Carducci riconosce nell’’Innnesto il primo e riuscito tentativo di Parini di mirare oltre l’Accademia e ciò nel suo saggio su “Il Parini maggiore” (1892): qui, osserva Carducci
“la gravità classica succede alla lombarda scioltezza”.
L’argomento tentò anche Alessandro Manzoni, il quale forse ne aveva sentito parlare dall’Imbonati o dalla madre, oppure – più probabilmente – seguì sulle Gazzette un argomento allora di moda, che nella Milano “giacobina” veniva tenuto vivo dal medico Giovanni Rasori.
Tra Prima Cisalpina e Regno d’Italia Rasori rappresentò la “punta di diamante” della medicina pubblica e dell’igiene.
Si andava diffondendo intanto in tutto il mondo il nuovo metodo dell’inglese Edward Jenner (1749-1823), allievo dell’Hunter, quello cioè dell’impiego, a scopo preventivo, del pus del vaiolo vaccino. Dopo molti anni di attente osservazioni il 14 maggio 1796 Jenner inoculò il bambino James Phipps impiegando il pus ricavato da una donna affetta da vaiolo vaccino (cow pox). Come prova per validare il suo metodo Jenner tentò successivamente di innestare nello stesso ragazzo il pus vaioloso umano, con esito negativo: ciò convalidò definitivamente la bontà del suo metodo.La diffusione in tutte le Nazioni della vaccinazione contro il vaiolo fu rapida: in particolare in Italia essa ebbe il suo apostolo in Sacco “Il primo introduttore del vaccino in Lombardia” come figura nell’epigrafe del busto a lui dedicato dal glorioso Ospedale Maggiore di Milano (1859).
Ricorda Giorgio Cosmacini che nel primo numero degli “Annali di Medicina” (1802), alla voce “Milano – Vaccinazione” figurava l’indicazione di un articolo del Sacco, fervente propugnatore della vaccinazione jenneriana: nello stesso anno il Comitato governativo lombardo dettò le norme per la vaccinazione secondo il metodo di Jenner, cioè con l’impiego del pus vaccino.
L’Italia dell’epoca napoleonica fu un osservatorio privilegiato per l’applicazione del vaccino, in particolare la Lombardia.
Sorprendentemente l’opposizione più vivace contro la vaccinazione si ebbe in Inghilterra ove il Parlamento ne sancì non l’obbligo ma la facoltà. E ciò a dispetto delle evidenze statistiche raccolte in vari paesi dell’Europa del XIX secolo.
È probabile che in quest’atmosfera di entusiasmo dell’inizio di secolo, Manzoni abbia concepito l’idea dell’ode “Vaccina”.
Si tratta di una poesia rifiutata, assieme a molte altre scritte dal Manzoni prima della conversione. Otto ottave e due versi sono quello che resta del progetto del poema sull’innesto vaccinico.
Comunque l’impegno per la stesura dei pochi versi, che conosciamo perché pubblicati nel 1927 dal Bulferetti nella “Fiera letteraria”, impedì al Manzoni la vagheggiata traduzione del poema “Partheneide” del poeta danese Baggesen, già resa in francese dal Fauriel, uno dei mentori, forse l’unico, di Manzoni: a lui Manzoni comunicava di aver interrotto “Vaccina” perché ormai impegnato negli “Inni sacri”.
Prima della trouvaille di Bulferetti si conoscevano solo due versi che Tommaso Grossi ricordava a memoria dalla sua assidua frequentazione manzoniana:
“Ch’io sento come il più divin s’invola
né può il giogo patir della parola”.
A questi possiamo aggiungere oggi che egli considerava
“L’alto argomento del mio canto io dico
Ben che tal volgo il chiamerà volgare”.
A fronte di paventate e talora reali diffusioni epidemiche che l’attuale situazione geo-politica consente di non escludere in assoluto, almeno a noi che vaccinati fummo, è lecito chiedere: è stato veramente saggio abolire questa forma di prevenzione?
“Multa renascentur quae iam cecidere”, il che vale, ahimé, anche per le malattie.
Sarebbe interessante conoscere il parere dell’Igienista.
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