Anno 5 - N. 15/ 2006


“... la città, lasciva di evirati cantori allettatrice” (Ugo Foscolo, Dei Sepolcri)

SUONI DISPERSI DAL TEMPO ovvero L’arte del “Belcanto” e i castrati di Nicola Porpora

“la loro voce ha un timbro come quello dei ragazzi del coro, ma è molto più forte, brillante e leggera pur nella sua forza, e di grande estensione” (Delbrise, 1730)

di di Kurt Meyer e Giulio Cesare Maggi



Farinelli con Metastasio ed Amigoni (1750 ca.) - Jacopo Amigoni (Napoli, 1682-Madrid, 1752) National Gallery of Victoria, Australia


Il 17 gennaio 1773, poche settimane prima del ritorno definitivo a Salisburgo, Wolfgang Amadé Mozart diresse a Milano, presso la Chiesa dei Teatini, la cantata sacra per sopranista, di chiaro influsso italiano, Exultate, Jubilate (KV165) che aveva iniziato a comporre il 26 dicembre 1772, una giornata veramente di “cento affanni”.
La cantata fu scritta da Wolfgang per il noto castrato romano Venanzio Rauzzini, bellissimo giovane di 25 anni al quale il salisburghese si era legato in cordiale riconoscendogli anche un debito morale per il felice, anzi trionfale, esito del Lucio Silla.
Nell’opera Rauzzini aveva sostenuto la parte di Cecilio, suscitando nel non sempre attento pubblico del Regio-Ducale, alto consenso e vivissimi applausi. Alla prima-donna Sig.ra De Amicis il Rauzzini pare abbia giocato, forse con innocente malizia, un “tiro da castrato”. Egli infatti aveva fatto sapere all’Arciduchessa Ricciarda che, essendo timido, gli avrebbe potuto giovare un applauso della stessa: il che avvenne puntualmente, seguito naturalmente da quello della Corte e del pubblico.
Ma, si sa, nel teatro le cose vanno così e non sono mutate...
Il 16 gennaio 1773 Wolfgang manda alla sorella il consueto bigliettino allegato alla lettera del padre Leopold (per nostra fortuna un vero grafomane secondo l’usanza di quel tempo):
“Ho da comporre per il primo-uomo un mottetto, che sarà eseguito domani presso i Teatini [...]”.
La esecuzione dell’ Exultate, Jubilate, un vero piccolo capolavoro, fu in realtà un successo, anche per la impeccabile esecuzione vocale del giovane castrato.
Venanzio Rauzzini (1746-1810), per oltre un lustro primo cantante alla Corte di Monaco, possedeva un’estensione di voce assolutamente straordinaria: questa andava dal La1 al La3, perciò di due ottave.
Come aveva già dimostrato nella parte di Cecilio nel Lucio Silla, possedeva di fatto una voce di castrato “esemplare”, con un suono più articolato, più costante su tutta la gamma rispetto a quella di un pur eccellente soprano o di un controtenore in falsetto.
Il problema della straordinarietà della voce nel castrato è stato affrontato di recente dal noto musicologo tedesco Hans-Joseph Irmen, emerito della Università di Essen, compositore e direttore d’orchestra: uno dei capitoli di un suo volume di recente comparso in Germania è infatti dedicato a Nicola Porpora ed ai celebri castrati suoi allievi.
La peculiarità della voce del castrato vi è esaminata con tale competenza e compiutezza, che a noi sembra non inutile riferirne in dettaglio. Si tratta infatti di una materia sulla quale si vive di ricordi, di anedottica, ma assai poco di dati, raccolti ed analizzati con grande obiettività dall’autore.
A tutti restano nella memoria i nomi e le cronache su Farinelli, Caffarelli, Rauzzini, il Porporino, il Senesino e di altri, meno celebrati: si noterà tutti italiani.
Anzitutto come cantavano i castrati? Non lo possiamo sapere, se non forse immaginare.
Tale forma di arte canora infatti si è - diciamo fortunatamente - conclusa con l’ultimo castrato noto, Alessandro Moreschi (1858-1922) del quale esistono persino delle registrazioni fonografiche eseguite nel 1902-1904. La qualità tecnica di queste è tuttavia talmente “primitiva” da non consentire di esprimere un giudizio convincente, ma assai importante ne è l’interesse storico. È stato possibile anche al grande pubblico riascoltare queste ormai centenarie registrazioni in occasione di una Mostra, tenutasi a Londra nel 2006, in onore di Händel.
Mentre siamo abbastanza sicuri che le tonalità di soprani, contralti, baritoni e bassi di allora erano sostanzialmente analoghe a quelle odierne (si parla per esempio di soprani mozartiani, rari in verità ma anche oggi esistenti), realmente il tono e il timbro della voce dei castrati sono purtroppo dispersi dal tempo.
Dobbiamo quindi affidarci alle testimonianze storiche del ‘700 per farcene una certa idea.
Scriveva nel 1730 Delbrisse: “La loro voce ha un timbro come quello dei ragazzi del coro, ma è molto più forte, brillante e leggera pur nella sua forza, e di grande estensione”.
Nel 1775 Quantz, il celebre flautista di Federico il Grande, descrive con competenza professionale la prestazione di un famoso castrato: “Senesino ha la voce di un soprano profondo, gradevole, penetrante, chiara, costante, una intonazione pulita ed un bel trillo. In altezza raramente supera il Fa2. Il suo modo di cantare è magistrale, quello di porgere completo. Nell’Adagio non eccede con abbellimenti vacui, facendo invece risaltare con massima finezza le maniere determinanti. Canta con molto fuoco l’Allegro e sa come far uscire dal petto i passaggi veloci con tempo adeguato. La sua figura è adattissima al teatro ed il suo modo di muoversi sulla scena è naturale”.
Lo stesso Voltaire in Candide (Cap. XII) fa dire a un castrato: “Sono nativo di Napoli ove ogni anno si castrano tra due e tremila bambini. Molti di essi muoiono, gli altri hanno poi une voix plus belle que celle des femmes, altri infine tra questi successivamente guidano i destini degli Stati”. L’allusione è a Farinelli, che veniva remunerato a peso d’oro dalla Corte di Spagna, essendogli riuscito di far uscire dalla grave depressione nella quale era caduto, il Re, cantandogli ogni sera un’Aria, sempre la stessa... .
Uno sdegnato Rousseau nel Dictionnaire de la Musique (1764) alla voce “castrato” così scrive: “In Italia ci sono dei padri barbari che sacrificano la Natura al profitto ed espongono i loro bambini a questa operazione per il solo divertimento di gente religiosa e credente, la quale non rinuncia alla propria stupidità nel richiedere sempre ed ancora il canto di quegli infelici. A parte le risatine delle onorate Signore, gli sguardi di disprezzo non disgiunti dall’incitamento a questi giovani”.
Apprezzamenti, del tutto positivi per il loro canto, senza il minimo accenno alla loro condizione di disagio psicologico sono presenti in Heinse, che nel romanzo Hildegard von Hohenthal, della metà del ‘700, esalta la voce di un castrato, “Al di sopra di qualsiasi altra, in musica, sta la voce di un castrato ben istruito nel canto. Nessuna donna ha la fermezza, forza e la dolcezza di suono e polmoni di così grande capacità”.
Anche Goethe nel suo Italienische Reise ricorda come a Venezia, nel 1786 ebbe modo di ascoltare un anziano castrato nella parte di Re Saul: “Non avevo idea di una tal voce” afferma, mentre faceva ridere nel mottetto il testo latino storpiato ed italianizzato. Ma la voce...
Il problema della voce femminile nella musica sacra ad un certo momento divenne importante anche per la Chiesa cattolica: difatti questa seguiva alla lettera l’indicazione che Paolo, in varie sue Epistole, consigliava di seguire e cioè “in Chiesa la donna taccia”.
Del resto già la Bibbia aveva stabilito (Siracide 9,4): “Non frequentare una cantante, per non essere preso dalle sue moine”. E la traduzione del Libro ad opera di Lutero aveva diffuso anche nel mondo protestante questo consiglio.
Nel canto sacro le voci femminili erano sostituite da quelle dei ragazzi del coro, la cui voce tuttavia presentava il serio inconveniente di modificarsi rapidamente, ed in modo negativo, con la comparsa dello sviluppo puberale: la loro rapida sostituzione impediva inoltre di formare scuole di musica vocale e per conseguenza cori stabili.
I cori delle chiese erano formati da 15-30 elementi per ciascun gruppo di voci. Si trattava in gran parte di dilettanti: dei solisti professionisti, in possesso di elevate qualità canore, ne formavano la spina dorsale e per le voci sopranili erano quindi indispensabili i castrati, che mantenevano la voce “bianca” per tutta la vita.
Ora i castrati venivano a risolvere, da maschi, il problema della voce femminile. La prima presenza nota di una voce di castrato nella Cappella pontificia risale al 1562, l’ultima alla Sistina fu quella di Alessandro Moreschi nella quale l’artista cantò fino ai primi anni del ‘900. Entrato nella Cappella Sistina come solista nel 1871 Moreschi fu uno degli ultimi ad esservi ammesso. Poco dopo infatti su suggerimento del grande Lorenzo Perosi, il pontefice Leone XIII emise una Bolla che vietava l’impiego dei castrati nella Cappella e nelle cantorie religiose, concedendo a coloro che erano al momento nel ruolo di poter continuare fino alla pensione. Moreschi si ritirò nel 1913 e morì a Roma, in pratica dimenticato, nel 1922: egli che era chiamato l’Angelo di Roma ed aveva cantato ai funerali di Napoleone III e nel Requiem verdiano scritto, come è noto, in memoria di Alessandro Manzoni.
I cori delle chiese offrirono così, all’inizio, ai castrati un posto sicuro e ben remunerato.
Anche nell’Opera fino alla metà del XVI secolo la donna era assai malvista sul palcoscenico ed è noto come in Francia quelle che avessero calcato le scene non potessero avere funerali e sepoltura religiosi.
Così i castrati, in tutto il continente europeo assumevano i ruoli femminili; la loro fortuna non era unicamente la conseguenza di queste attitudini misogine quanto piuttosto dell’entusiasmo con il quale il pubblico teatrale amava ed ammirava le capacità canore di questi peculiari virtuosi, ai quali tributava onori trionfali che una prima-donna talora non riusciva ad ottenere.
Il centro europeo del canto dei castrati era Roma. Nel 1784 un corrispondente del Magazins der Musik scriveva al suo editore: “Qui si contano 200 castrati, tutti impegnati in determinate chiese, di cui parecchie ne hanno al loro soldo permanente otto, anche dieci. Vengono attratti qui, dove la mutilazione è vietata sotto pena di scomunica, da Napoli”.
I castrati provenivano tutti da questa città, ove le famiglie povere, nella speranza di garantire a qualche figlio un avvenire sicuro e vantaggioso, non esitavano a sottoporlo al grave e mutilante intervento, la cui mortalità era straordinariamente elevata. Certamente le cifre indicate nel Candide sono assolutamente non attendibili, ma quelle riportate dal corrispondente tedesco sono invece realistiche.
Importanti sono gli effetti che la castrazione induce sull’organismo umano e sulla sua psiche; si tratta di eventi complessi che in breve ricorderemo.
Quando l’intervento veniva effettuato prima della pubertà lo sviluppo delle caratteristiche sessuali secondarie era ritardato. Così lo sviluppo ritardato del laringe consente di conservare l’acutezza della voce infantile, realizzandosi quindi la cosiddetta “voce di castrato”, altra conseguenza, lo sviluppo abnormalmente ampio della struttura toracica con conseguente aumento della capacità vitale e perciò della ventilazione polmonare rispetto a quelle di un soggetto normale. Per ritardata calcificazione delle epifisi delle ossa lunghe si determina un aumento della statura corporea che così resta relativamente snella.
Per contro con l’avanzare dell’età si osserva una tendenza all’obesità fino a forme mostruose, come avvenne al Rauzzini. La cute è scarsa di pigmentazione con colorito grigiastro ed invecchiamento relativamente precoce.
Come si vede un quadro abbastanza complesso e relativamente caratteristico dal punto di vista fisiopatologico, se non già patologico.
Se invece l’intervento veniva eseguito tra i 14 ed i 20 anni i castrati avevano un aspetto meno femmineo ed il tono della voce dava l’impressione di maggior morbidezza. Se l’operazione non aveva esito letale, i castrati erano longevi: quasi tutti raggiungevano età superiori ai 60 anni, in un periodo nel quale questa raggiungeva in media i 40.
La castrazione, come è noto, non sopprime totalmente l’istinto sessuale, comporta però impossibilità di generare, riduzione di libido e di potenza. Non sempre viene a mancare la potentia coeundi, per cui le cortigiane astute preferivano come amanti i castrati. Del resto già Marziale scriveva: “Pannycos, mi chiedi perché Clelia ha solo dei castrati? Vuole fare l’amore ma non desidera gravidanze”.
Ricordiamo a questo proposito che Rauzzini, chiamato da Venezia alla Corte di Monaco, fece innamorare di sé, per la sua bellezza, oltre che per la sua voce, tutte le donne della Corte e della città “dai quindici ai quarant’anni” ed ebbe un tal numero di relazioni non platoniche che dopo qualche anno fu costretto a riparare in Italia per evitare di venire ucciso da qualche padre o marito inferocito. Se ne giovò, come si è visto, Wolfgang Amadé per il suo Lucio Silla...
Tornato a Londra nel 1774 vi conobbe onori straordinari, collaborando con Sacchini nell’opera Montezuma, dando concerti, lezioni e conducendo una vita da gran signore. Si ritirò infine a Bath ove morì nel 1810: qui sono custodite le sue ceneri.
Come si è detto la castrazione può determinare in questi artisti delle alterazioni, se non propriamente psichiche, almeno comportamentali. I castrati, secondo quanto apprendiamo da cronache e memorie specialmente del ‘700, erano capricciosi, talora inclini ad una litigiosità che poteva esitare in duelli: ad esempio Caffarelli aveva frequenti accessi di ira persino in palcoscenico. Il noto castrato Francesco Bernardi, in arte Senesino, era violento persino con la propria famiglia. Comportamenti contraddittori ebbe anche Farinelli che si rifiutò di cantare per il grande Händel, e concesse la sua voce all’Opera of the Nobility, mentre di Luigi Marchesi (1754-1829) si narra che esigesse di entrare in scena a cavallo, anche se ciò era del tutto estraneo al soggetto dell’opera rappresentata.
Dal punto di vista musicale la voce del castrato è chiara e brillante. Ha poco vibrato ed una grande estensione del registro di petto: parte da Do2 o Re2 ed è quindi di gran lunga superiore alle possibilità di una voce femminile.
Veniva considerata perfetta se passava in modo uniforme dal sonoro registro di petto a quello morbido di testa. Spesso la lunghezza di fiato era straordinaria. Era ammirata la messa in voce, ovvero quel suono che aumenta senza incrinature e che non di rado durava un intiero minuto ed oltre.
Il timbro vocale era affascinante.
L’insegnamento della tecnica di canto dei castrati era basato sulla classica Scuola del Belcanto.
I ragazzi venivano affidati ad un insegnante dal quale ricevevano, oltre all’educazione musicale, vitto e alloggio. Il Maestro veniva compensato dall’aiuto che i ragazzi potevano dare in casa ma poi, per qualche anno, questi incassava la maggior parte delle loro retribuzioni se essi apparivano in pubblico. Egli trattava i suoi allievi in modo molto duro: lo scudiscio era ritenuto lo strumento principale per inculcare l’arte del canto. L’istruzione durava da sette a dieci anni con lezioni quotidiane. Se i ragazzi non avevano successo, potevano sempre diventare preti grazie ad una indulgenza particolare e persino celebrare Messa a condizione che, avvicinandosi all’altare, portassero con sé le parti asportate in precedenza... In questo caso, grazie ad un ragionamento assai sofisticato, anzi capzioso, erano ritenuti integri.
Il napoletano Nicola Antonio Porpora (1686-1768) fu indubbiamente il più famoso insegnante di Belcanto di tutto il ‘700. Eccellente tenore, fu compositore tra i più moderni di quei tempi. Era uomo di buona cultura generale: conosceva la poesia e la letteratura italiana e parlava correntemente francese, inglese e tedesco.
I suoi allievi più importanti costituivano per lui, con il loro canto meraviglioso, la ragione della sua fama, diffusa in tutta l’Europa. Tra questi, come si è già ricordato spiccavano Farinelli, Caffarelli, Rauzzini ed il Porporino. Ed essi erano famosi non solo per la straordinarietà della voce ma anche per la bellezza fisica e per la non comune capacità di tenere la scena.
Egli fu Maestro di Cappella a Vienna dal 1753 al 1760: dimorava nel Palazzo Michael che sorge a fianco dell’omonima chiesa, ove è sepolto il Poeta Cesareo Metastasio, di fronte al Castello imperiale. Al primo piano dell’edificio era l’appartamento della principessa Ezterházy da questa occupato nei periodi di soggiorno nella Capitale e che non raramente accoglieva la visita dell’Imperatrice Maria Teresa, sua amica personale. Al terzo piano era l’abitazione e la Scuola di Porpora, mentre nell’abbaino alloggiava il giovanissimo Haydn, dal Porpora assunto quale fortepianista accordatore per le lezioni di canto nonché sostituto Maestro.
Haydn stesso così ricorda le lezioni di Porpora: “Non mancavano né gli epiteti come asino, coglione, birbante né le paccate sulle costole”.
Pare che Porpora avesse un temperamento vulcanico forse perché molto sicuro di sé, energico, pieno di spirito imprenditoriale, intrigante, pericoloso, di lingua tagliente, ma era anche per i suoi allievi, dall’inizio alla fine, insegnante, padre, amico, impresario e tiranno allo stesso tempo.
Fetis nelle sue Curiosités Historiques de la Musique descrive così il metodo d’insegnamento di Porpora: « Per esempio mostrava amicizia per un giovane castrato che voleva diventare suo allievo chiedendogli se avesse il coraggio di seguire in modo costante la strada che gli avrebbe indicato, per quanto noiosa gli potesse apparire. All’assenso del ragazzo Porpora annotava su un foglio pentagrammato le scale diatoniche e cromatiche ascendenti e discendenti, i salti, le scale, le terze, le quarte, quinte ecc. onde insegnare all’allievo di prendere con sicurezza gli intervalli e a sostenere e portare bene il tono. Aggiungeva poi ogni tipo di trilli, appoggiature e vocalizzi. Questo unico foglio serviva per le lezioni quotidiane di tutto il primo anno. Non veniva cambiato nel secondo e terzo anno. Quando il giovane cominciò a mugugnare il Maestro gli ricordò l’impegno assunto di seguire l’iter degli studi secondo il piano iniziale. Anche nel quarto e quinto anno vi era sempre solo questo dannato foglio che veniva ancora utilizzato nel sesto ma con l’aggiunta di esercizi di articolazione, di dizione ed infine di declamazione. Alla fine del sesto anno l’allievo credette di essere ancora all’inizio degli studi veri e propri. Rimase molto sorpreso quando il Maestro gli disse: “Va, figlio mio. Non hai più nulla da imparare, sei il miglior castrato d’Italia e del Mondo”. Questo giovane era il Caffarelli (1703-1783) uno dei più brillanti cantanti del XVIII secolo.
Fetis, alla fine del suo racconto, scrive desolato: “In tutta Europa non esiste più una scuola dove si impieghino sei anni per conoscere i meccanismi del canto”.
Il più famoso castrato di tutti i tempi fu il Farinelli. Quantz ne descrive così le qualità: “Farinelli ha la voce del soprano, penetrante, piena, grassa, chiara e costante, con estensione da La1 al Re3. Pochi anni dopo l’esordio acquisì alcuni toni più bassi, senza perdere gli acuti, ragione per la quale per lui si componevano arie aggiuntive in molte opere, quasi sempre degli Adagio, con l’estensione da contralto a soprano. La sua intonazione era pura, il trillo bello, la voce di petto estremamente forte nell’ampio respiro, l’ugola ben agile così che potè far uscire gli intervalli più grandi mai uditi, con la massima velocità e sicurezza senza alcuna fatica nei passaggi anche frazionati.
Era molto felice negli abbellimenti per l’Adagio, con fuoco giovanile di grande talento. L’applauso universale e l’ugola perfetta ogni tanto lo portavano a eccedere in queste doti. Il fisico era adatto per il teatro anche se l’azione non era guidata dal cuore”.
Così Fetis analizza l’insegnamento di Porpora: la voce viene trattata come uno strumento musicale e, mediante esercizi di destrezza, viene allenata al grande virtuosismo. Questo è solo il mezzo, non il fine. Il suono va nobilitato, la sua bellezza è l’ideale da raggiungere, non tanto per stupire l’ascoltatore bensì per emozionarlo. Porpora insegnò agli allievi l’espressione profonda, vera, assieme alla perfetta dizione sia nel recitativo sia nelle Arie. Aveva il dono, ignoto a gran parte dei tanti insegnanti di canto e dei compositori (e di non pochi direttori d’orchestra anche odierni) di capire perfettamente le capacità dei suoi cantanti e di adeguarvisi, senza distorcere le caratteristiche della loro voce.
Questo è il Belcanto e non esiste un’altra definizione sotto questo profilo in tale epoca.
Solo nel 1820 Giovanni Pacini a Viareggio tentò di definire un programma di studio della tecnica applicabile all’arte.
Porpora non ha lasciato un Trattato al riguardo come C.P.E. Bach fece per il cembalo, Quantz per il flauto traverso e Leopold Mozart per il violino. Però, oltre al foglietto descritto da Fetis, i suoi intenti sono contenuti nelle sue quasi quaranta opere e nella sua musica sacra. Ne è un esempio un piccolo mottetto che contiene una coloritura di ben nove battute da cantare in un sol fiato: si tratta del Duetto sopra la Passione a soprano e alto, composto da Porpora per la Corte imperiale l’anno 1754, la cui parte di continuo sarà stata quasi certamente suonata dal ventiduenne Haydn.
A ben guardare esiste tuttavia una descrizione del Belcanto, anche se però il nome non viene menzionato.
Nel 1783 Esteban de Arteaga nel suo trattato Le rivoluzioni del teatro musicale italiano edito a Bologna, scrive che se si intende come canto la capacità di modificare la voce in mille modi con il massimo d’arte e di finezza, in Italia quest’arte ha fatto dei progressi straordinari: l’arte cioè di esprimere le minime differenze, di emettere il suono alla perfezione, di far sentire le differenze delle quali non ci si accorge, di legare il suono, di distanziarlo, di differenziarlo o diminuirlo, d’usare i tanti modi di modulazione, la velocità nei passaggi, nei trilli e nelle cadenze, lo stile fine, pulito, artistico, l’espressione dei sentimenti dolci e delle forti passioni. Tutto questo fa parte dei miracoli che vengono realizzati quasi magicamente da alcuni, pochi in verità, tra i cantanti. I castrati ebbero questo a vero dire triste privilegio, riuscendo a deliziare generazioni di musicofili, lasciando a noi non certo il rimpianto, ma sicuramente la più viva curiosità per la perfezione irraggiungibile del Belcanto. Sicché poco si comprendono, tutto sommato, le ricerche di paleoantropologia che verranno eseguite, a quanto pare, sui resti di Farinelli, oggi sepolto nel cimitero della Certosa di Bologna, onde esplorare il perché della alta statura e della straordinaria capacità polmonare del celeberrimo castrato.
Questo ci fa venire in mente analoga indagine in corso sui resti, ormai polvere, di Francesco Petrarca in occasione del VII centenario della nascita.
Sarà sicuramente la nostra pochezza di un musicologo e di un medico rispettivamente, ne conveniamo.
Tuttavia, parce sepulto.








Gli autori ringraziano il M.° Pierfranco Vitale per alcuni importanti suggerimenti in tema di musicologia