Anno 5 - N. 14/ 2006
Il cane Barone
Una storia vera
Il suo scanno regale:
una panchina di cemento fuori casa
di Silvia De Bei
Opera di Barbara Galizia
Questa è la storia (vera) di un cane, che uno stemma bianco sul petto, aveva insignito di un titolo che per nascita non gli spettava.
Nero, lucido il pelo, ispido e corto, indipendente, senza inutili servilismi, sicuro e coerente al nome: Barone. Il temperamento compensava largamente la mancanza di alto lignaggio, che ne giustificasse il nome, l'atteggiamento era di un cane signore. Tutti i più bei doni, nella cucciolata bastarda, erano stati per lui: un cielo limpido a smalto, una profusione di tramonti rossi, un mare, azzurro nella calma, verde nella tempesta, e ancora colori nei fichi d'india verdi e, arancioni nei frutti e ultimo dono, come nelle favole più belle, un vento multiforme.
Barone conosceva la brezza e distingueva i venti, la gelida tramontana, il maestro pieno di ottimismo, il subdolo libeccio, l'onesto greco.
Il suo scanno regale: una panchina di cemento fuori casa, dove i sonni al sole e alla luna erano pieni di sogni. Ma sempre con un occhio solo, perché l'altro doveva osservare e capire.
Barone aveva anche un padrone: Josè de Hidalgo. Alto, secco, con il passo dalle lunghe, magre gambe, leggermente disarticolate, forse per la lunga abitudine del cavalcare, piuttosto che del camminare. Per la solitudine, questo padrone era abituato a un silenzio che per Barone si trasformava in linguaggio.
L'uomo amava il suo cane, ma la forma era dura, come ingrata era stata la sua vita. Nessun equivoco per Barone che serviva il suo padrone, con amore e dedizione. Hidalgo sapeva che Barone era sempre con lui: il richiamo era inutile. Gli aveva deferito alcuni compiti che Barone assolveva con scrupolo: grosse baruffe con i gatti che invadevano casa e pentole, guardia alla casa, senza turbare il meraviglioso silenzio. Che la situazione di Barone fosse un privilegio e un riguardo al nome era evidente dalla presenza di altri cani, non liberi come lui, ma costretti in servitù e a lavorare, cacciando.
L'alimentazione di Barone era ammantata di mistero, mentre a tutti gli altri cani era riservato un grande pentolone di alterne vicende che, grosso modo e con varianti, ricordava, alla lontana, i gustosi piatti di Josè, cacciatori e relativa corte, per lui non esisteva nulla, ne si sapeva se mangiava, ne chiedeva. Tutto questo contribuiva a renderlo magico e irreale, accentuando la sua fredda personalità e a ritenerlo fermo nel tempo.
Ma un giorno Barone si innamorò e la prescelta fu una dolcissima cagnola e il nome era Tana. Bianca asciutta con i tendini sotto pelle, ottima cacciatrice, il muso calato in una cuffietta di pelo nera, Tana ricambiò l'amore con sottomissione, pacatezza, fiducia. E Barone commise il misfatto. Scavato con determinazione un tunnel sotto la rete di protezione, passò nel recinto dei cani preziosi e ingravidò Tana.
Per la prima volta si accorse che l'isola odorava di fiori di primavera. Tana diminuì le prestazioni e il cacciatore padrone ne intuì il segreto.
Fulmini e anatemi si mossero minacciosi nell'aria: la genetica non avrebbe più soddisfatto i requisiti richiesti. José de Hidalgo negò, impossibile, Barone si era sempre comportato bene.
Ma di fronte all'evidenza le gambe disarticolate presero a tremare e gli occhi corsero obliqui al cielo, in un conflitto di timore reverenziale e disillusa fiducia. Occorreva una punizione che, tragica, sublimò questa storia d'amore.
Una striscia di mare divideva l'isola deserta, della Dea Diana cacciatrice, dalla grande isola dove la vita si svolgeva come sulla terra ferma.
Al tramonto José prendeva una piccola barca, Barone con lui, e ritornavano a casa.
Una splendida scala, a zig-zag, portava dal mare alla piazza del paese, in un coinvolgente scenario teatrale, lì, José sentì preminente e minacciosa la devozione verso il suo signore.
Il mattino seguente Barone non salì sulla barca, per i ritorno, ma venne legato a prua con una corda, perché si rendesse conto di quanta distanza c'era tra lui e i cani cacciatori. Iniziò a nuotare dietro la barca. Se non si affrettava la corda stringeva il collo, le zampe corte, robuste, appartenevano alla terra. Non sapeva che lui era parte di un riscatto, duro, spietato, che avrebbe ristabilito un rapporto gerarchico spinto all'estremo. Cominciò a sentirsi stanco, il suo padrone l'aveva abbandonato. Guardò il cielo, guardò il mare, entrambi azzurri, pensò che un azzurro valeva l'altro e si lasciò andare.
Mentre Barone affondava e il mare riportava a galla bolle di respiro, i cuccioli con lo stemma bianco e la cuffietta nera ignari e baldanzosi ne rinnovavano la vita.
Il racconto di tono quasi medioevale, rivisitato alla fine del nostro millennio, ha, come le favole di Esopo, una sua morale: se l'uomo distrugge, la natura, con il suo ciclo eterno, promette fiducia e speranza.
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