Anno 5 - N. 14/ 2006
Parlare per miti è dunque esprimersi per immagini ed è innegabile
che l’uomo pensi, oltre che per concetti, per immagini
Agli albori della riflessione filosofica
IL PASSAGGIO
dal mito al logos
“nella scuola di Mileto, per la prima volta, il logos si sarebbe liberato dal mito... una decisiva e definitiva rivelazione: la scoperta dello spirito... oggi l’occidente non può più considerare il proprio pensiero come “il pensiero” ma mentre si preoccupa e mette in dubbio i suoi principi, si rivolge verso le sue origini e interroga il suo passato per potersi capire storicamente.”
di 
Elisabetta Gatteschi
Ermes e Athena (affresco 1585 ca.)
BARHOLOMAEUS SRANGER
(Anversa, 1546-Prega, 1611)
Praga, Castello
Per secoli si è ritenuto che il pensiero razionale avesse un suo stato civile, un preciso luogo e data di nascita: nel VI sec. a.C. nelle città greche del1’Asia Minore, sorge una forma di riflessione nuova, interamente positiva, sulla natura. Nel1a scuola di Mileto, per la prima volta, il logos si sarebbe liberato dal mito. Più che di un cambiamento di atteggiamento intellettuale, di un cambiamento mentale, si tratterebbe di una decisiva e definitiva rivelazione: la scoperta dello spirito. Sarebbe vano cercare nel passato le origini del pensiero razionale: il “miracolo greco” introduce nella storia una radicale discontinuità.
Tuttavia, nel corso dell’ultimo secolo, la fiducia dell’Occidente nel monopolio della ragione è stata intaccata. La crisi della fisica e delle scienze contemporanee ha scosso le fondamenta, che si credevano definitive, della logica classica. Il contatto e la conoscenza delle grandi civiltà spirituali diverse dalla nostra, come l’India e la Cina, ha rotto la cornice dell’umanesimo tradizionale. Oggi l’Occidente non può più considerare il proprio pensiero come “il pensiero” ma, mentre si preoccupa e mette in dubbio i suoi principi, si rivolge verso le sue origini e interroga il suo passato per potersi capire storicamente.
E’ dunque superata la concezione dell’improvvisa comparsa del pensiero razionale come luce sfolgorante che abbia messo definitivamente in ombra e tolto significato alle interpretazioni precedenti. Che cosa caratterizza la Grecia antica? Tutti gli storici hanno insistito sulla particolarità delle condizioni politiche, sociali ed economiche che favorirono la nascita della filosofia presso i Greci. E’ infatti evidente la peculiare situazione di libertà che caratterizzò il greco rispetto ai popoli orientali. L’uomo orientale era tenuto a una ubbidienza cieca e assoluta al potere politico e religioso, spesso coincidenti, mentre in Grecia il crearsi della polis fece sì che, da un punto di vista politico e sociale, l’uomo greco progressivamente non sentisse più alcun vincolo o antitesi tra individuo e Stato e, al contrario, si percepisse non accidentalmente ma essenzialmente come cittadino di un determinato Stato.
Due fatti fondamentali segnano questo passaggio: il nascere di ordinamenti repubblicani e la fondazione delle colonie a Oriente e Occidente.
Nella vivacità delle lotte e delle trasformazioni politiche si apriva il varco per la fioritura artistica e scientifica della Grecia; non a caso la filosofia nacque nelle colonie, prima quelle dell’Asia minore, poi quelle occidentali dell’Italia meridionale, per tornare solo successivamente in terra greca. Nelle colonie infatti si erano sviluppati prima quella certa indipendenza di azione e quel certo benessere determinanti al crearsi dello spazio per fioritura della cultura e del pensiero. Di più: la filosofia, ritornata in Grecia, raggiunse il suo culmine proprio ad Atene, luogo in cui esistette la libertà più grande della quale un cittadino del mondo antico abbia mai goduto.
Che cosa si intende con il termine mito? Una forma di racconto che vuole dare una spiegazione della realtà del cosmo e della presenza dell’uomo nel cosmo attraverso l’azione di potenze divine. Si tratta quindi di un tentativo di risposta alle domande sull’origine e sul senso della vita che da sempre appartengono alla natura dell’uomo. Come dal caos può nascere un mondo ordinato, regolato da leggi precise? Quali sono i principi fondamentali che regolano il mondo e la vita? Per dare un esempio di questo, parleremo dell’opera di Esiodo.
Che cosa si intende invece per filosofia e quali sono i caratteri definitori della filosofia antica? Vediamo che tipo di ricerca si volesse sotto questo termine esprimere, rispetto al contenuto, al metodo e allo scopo.
Per quanto riguarda il contenuto, la filosofia si propone di dare una spiegazione a tutto il reale, cioè alla totalità delle cose e dei collegamenti e nessi tra le cose. Già nella domanda di fondo di Talete, considerato il primo dei filosofi, e cioè “qual è il principio di tutte le cose?”, tale aspetto è ben visibile.
Per quanto riguarda il metodo, la filosofia si vorrebbe esprimere in modo puramente razionale rispetto alla totalità che ha ad oggetto, ricercando, oltre che fatti ed esperienze, le ragioni, le cause e i principi.
Per quanto riguarda infine lo scopo della filosofia, si deve considerare il suo carattere puramente teoretico o contemplativo: essa mira a indagare e conoscere la verità per se stessa, prescindendo da qualsiasi fine pratico (questo concetto viene già chiaramente espresso da Aristotele nella “Metafisica”).
In ordine di tempo, la prima forma di filosofia si rivolse alla totalità del reale vista come natura, come cosmo. La domanda per eccellenza fu quindi cosmologica: come sorge il cosmo (universo ordinato), qual è il suo principio, quali sono le fasi e i momenti del suo generarsi?
L’antecedente della cosmologia filosofica è costituito dalle teogonie e cosmologie mitico/poetiche: la più importante è la “Teogonia” di Esiodo (vissuto in Beozia nel VII sec. a.C.), la quale rielabora e ordina il materiale della tradizione mitica precedente, facendone scaturire una sintesi organica. La Teogonia racconta la nascita di tutti gli dèi e, dal momento che alcuni dèi coincidono con parti dell’universo e fenomeni naturali, diventa anche cosmogonia, spiegazione fantastica della genesi dell’universo e delle sue manifestazioni. Esiodo immagina di aver avuto una visione delle Muse le quali gli hanno rivelato la verità di cui egli ora, a sua volta, rende partecipi gli uomini. Dapprima si genera il Caos, poi la Terra (Gea) la quale contiene in sé tutte le cose. Nelle profondità della Terra si genera il Tartaro buio e poi Eros, l’Amore, che dà origine a tutto il resto. La Terra da sola genera quindi Urano, cioè il Cielo stellato, il mare e i monti. Congiungendosi con il Cielo, la Terra fa nascere Oceano e tutti i fiumi. Procedendo così, Esiodo narra l’origine dei varî dèi e numi; dell’ultima generazione fanno parte Zeus e tutti gli altri dèi dell’Olimpo omerico venerati a quel tempo dai Greci.
La Teogonia è un bellissimo esempio di costruzione intellettiva, consequenziale e coerente, che si spinge a voler indagare la totalità dell’esistente: tuttavia il ruolo determinante è sempre giocato dall’elemento fantastico e poetico.
Veniamo ora a Talete, vissuto a Mileto a cavallo tra il VII e il VI sec. a.C. e nominato dalla tradizione il primo filosofo. Tutte le notizie su di lui ci vengono tramandate da Aristotele, e nel suo pensiero sembra proprio che qualcosa muti radicalmente.
In sintesi, l’affermazione principale di Talete è che esiste un principio primo di tutte le cose, e questo principio è l’acqua. Infatti l’acqua è ciò da cui derivano e si risolvono tutti gli esseri, è una realtà che rimane identica a se stessa nelle sue trasformazioni e costituisce quindi fonte e scaturigine delle cose, foce o termine ultimo delle cose e permanente sostegno di tutte le cose. Ecco il principio primo, o physis, realtà prima, originaria e fondamentale. A sostegno di questa enunciazione vengono addotte precise ragioni, ad esempio, che il nutrimento di tutte le cose è umido, neanche il caldo si genera dall’umido, etc.; si tratta comunque di motivazioni di tipo razionale.
Ora non si può in nessun modo affermare che tra la rappresentazione esiodea e quella di Talete e dei suoi successori ci sia un salto assoluto: le spiegazioni degli Ionici non hanno nulla in comune con la nostra scienza, ignorano totalmente l’esperimento e solo in minima parte nascono dall’osservazione diretta della natura; la presenza dell’elemento divino è ancora molto forte.
Quali sono quindi gli elementi di distinzione forte?
Per prima cosa, la domanda cosmologica viene ad assumere la forma di un problema formulato esplicitamente. Mentre il mito era un racconto storico, non la soluzione di un problema, con la filosofia nascono delle vere e proprie questioni su cui viene aperta, già dall’inizio, una discussione.
In secondo luogo, gli elementi dei filosofi presocratici non sono personaggi mitici come Gea, ma non sono neanche realtà concrete come una zolla di terra: sono “potenze” eternamente attive, contemporaneamente divine e naturali. L’innovazione mentale è nel fatto che queste potenze vengono concepite astrattamente, e rigorosamente delimitate: la loro azione consiste nel produrre un effetto fisico determinato. Gli elementi originari e primordiali perdono il loro mistero e agiscono nello stesso modo di quelli di cui constatiamo l’effetto ogni giorno (es. la pioggia bagna la terra).
Il mito raccontava all’uomo una storia, la cosmologia filosofica definisce i principi primi e costitutivi dell’essere: da storico si passa quindi a un sistema che espone la struttura profonda del reale.
L’interrogativo su ciò che fa sì che le cose che sono siano, che esistano, nasce contemporaneamente al pensiero cosmologico. I suoi sviluppi interessano una nuova e più evoluta forma di filosofia, cioè la riflessione sulla conoscenza stessa o epistemologia e poi la logica, scienze queste messe già chiaramente a tema ai tempi di Aristotele.
Parmenide, che visse a EIea, nella Magna Grecia, a cavallo tra il VI e il V sec. a.C. è un innovatore assoluto nella storia del pensiero e diventa riferimento imprescindibile per i suoi successori.
NeI prologo del suo poema, esattamente come avviene in Esiodo, Parmenide viene ispirato da una dea che gli rivela la verità. La sapienza può essere ricercata secondo tre strade: la via vera, la via fallace e la via verosimile.
Imboccando la strada della assoluta verità si incontra il principio stesso della verità, e cioè che l’essere è e non può non essere, mentre il non essere non è, e non può in alcun modo essere. Nella concezione parmenidea, essere e non essere sono presi nel loro significato integrale e univoco: l’essere è il puro positivo, il non essere è il puro negativo, l’assoluto contraddittorio dell’ assoluto positivo.
L’essere è la sola cosa pensabile ed esprimibile, qualsiasi pensare, per essere tale, è pensare l’essere: pensare ed essere coincidono perché non c’è pensiero che non esprima l’essere; il non essere è del tutto impensabile, inesprimibile, indicibile e quindi impossibile. Nella coincidenza tra essere e pensare è stata indicata la prima, grandiosa enunciazione del principio di non contraddizione, cioè il principio che afferma l’impossibilità che i contraddittori esistano contemporaneamente. In questo caso i contraddittori sono due supremi contraddittori, essere e non essere: se c’è l’essere non può esserci il non essere. Questo grande principio avrà da Aristotele la sua più celebre formulazione e costituirà il caposaldo non solo della logica antica, ma di tutta la logica dell’Occidente. Soltanto Aristotele sarà in grado di utilizzarlo sviluppandone le conseguenze logiche.
In Parmenide, il quale usa il principio solo nella sua valenza ontologica, si giunge a una sorta di blocco totale dell’essere: dell’essere non si può infatti esprimere assolutamente nulla, se non “l’essere è”. Per non cadere in contraddizione, l’essere risulta ingenerato e incorruttibile, senza passato e senza futuro, uno, immobile e immutabile. E’ evidente che questo genera una insuperabile aporia e lascia senza una spiegazione il mondo dei fenomeni, delle cose che ci circondano, che invece sono molte, nascono, diventano, muoiono, si muovono, etc. Lo stesso Parmenide tenta di salvaguardare il mondo dei fenomeni attraverso la cosiddetta “terza via” di ricerca che esprime la doxa, opinione non vera ma verosimile dei mortali. Secondo questa via si dovrebbe arrivare alla conclusione che gli opposti di cui abbiamo esperienza si ricompongono in realtà in un’unità superiore. Poiché però l’unità superiore deve alla fine ripresentare i citati caratteri dell’essere-uno, l’aporia strutturale rimane. Da questo momento in poi tutti i pensatori sono costretti a confrontarsi, con gravissime difficoltà, con la dottrina di Parmenide, la quale suscita da subito accesissimi dibattiti per la sua paradossalità. Ricordiamo qui soltanto uno strenuo sostenitore di Parmenide, il suo discepolo Zenone di Elea, il quale fu il primo a usare con estrema abilità il metodo di difendere una tesi attraverso la confutazione della tesi contraria (v. i famosi “paradossi eleatici” contro il movimento, riferiti da Aristotele e che lui stesso fece molta fatica a superare).
Tra discussioni infinite - nemmeno Platone riesce a venire definitivamente a chiarezza su questi punti - arriviamo alla svolta di Aristotele (384- 322 a.C.) Parmenide, riflette Aristotele, aveva creduto che l’essere non potesse che essere assolutamente identico, cioè intendersi univocamente. L’univocità porta alla unicità e infine, come si e visto, alla paralisi dell’essere. Di contro a tale univocità, Aristotele giunge allora a formulare il fondamentale principio dell’originaria molteplicità dei significati dell’essere. Secondo tale principio l’essere, che non è un genere né una specie, esprime significati diversi tutti aventi una precisa relazione con un identico principio o realtà, chiamata sostanza. Naturalmente è impossibile dirimire il quesito della natura e le implicazioni del concetto di sostanza. È importante evidenziare ai nostri fini che la svolta verso la molteplicità dei significati dell’ essere abbia portato a “salvare i fenomeni”, a potere cioè dare ragione della realtà come si manifesta agli occhi dell’uomo.
Prendiamo ad esempio il significato “essere in potenza” ed “essere in atto”.
L’esperienza ci dice che esiste un modo di essere in potenza, che significa capacità di essere in atto ma non essere in atto. Attraverso questo concetto si riescono a recuperare il divenire, il movimento e il molteplice. Diventa infatti possibile dire “il bambino non è ancora un uomo” oppure “il seme non è ancora un albero”, senza dover negare l’esistenza di nessuno di essi. Se io mi trovo qui, non mi trovo in un altro posto, ma se sono in grado di camminare ho la capacità di spostarmi in un altro posto. Sono quindi potenzialmente in grado di essere altrove.
In conclusione è importante mettere in evidenza come, mentre portava al conseguimento di grandissimi traguardi e risultati, questa impostazione di pensiero abbia fatto sí che l’uomo occidentale abbia perso molto in termini di capacità di espressione di intuizioni, immaginazione, emozioni e sentimenti.
A dimostrazione di questo citerò Platone il quale, come è noto, nell’espressione del suo pensiero rivalutò moltissimo il mito accanto al logos e del mito fece ampio uso nei suoi dialoghi, soprattutto i più tardivi (v. il famosissimo mito della caverna). Del senso del mito in Platone la storia della filosofia ha dato interpretazioni diversissime.
Hegel, ad esempio, sosteneva che l’uso del mito, in quanto forma di esposizione più antica, è attestazione dell’impotenza del pensiero che non sa ancora reggersi da solo, non è ancora pensiero libero. Ma non appena il concetto si fa maturo, non ha più bisogno di ricorrere al mito e lo abbandona. Heidegger giunge a una conclusione diametralmente opposta, affermando che nel mito troviamo la più alta espressione della filosofia platonica. Infatti il logos, che si è dimostrato capace di cogliere l’essere, è incapace di spiegare la vita; il mito allora gli viene in soccorso proprio per spiegare la vita, e supera il logos facendosi mitologia. In tal modo il mito viene a perdere i suoi elementi meramente fantastici, e mantiene soltanto poteri intuitivi e allusivi.
Parlare per miti è dunque esprimersi per immagini, ed è innegabile che l’uomo pensi, oltre che per concetti, per immagini.
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