Anno 5 - N. 14/ 2006


Il Flauto magico, in assenza di un’appropriata regia e di cantanti che siano al contempo attori, rischia di essere poco compreso

Prolegomeni al “Flauto magico”

“Quando sogno il Paradiso, immagino sempre i grandi Maestri riuniti in un salone che li ospita tutti. Solo Mozart ha il suo appartamento privato” E.T.A. Hoffmann

di di Giulio Cesare Maggi



Papageo - OSKAR KOKOSHKA (costume per il "Flauto Magico")


Opera quant’altra esigente di essere un “vero spettacolo”, come sostiene Giorgio Strehler, per il quale la scelta del Teatro auf der Wieden non fu affatto casuale, il Flauto magico, in assenza di un’appropriata regia e di cantanti che siano al contempo attori, rischia di essere poco compreso.
E ciò a dispetto di una trama logica seppur fantastica, nonché di una musica sublime: l’una e l’altra, ma soprattutto la prima, si giovano sicuramente di un’adeguata introduzione onde essere gustate appieno, legate come sono tra di loro.
Non oserei mai cimentarmi con l’aspetto musicologico dell’opera: mi limiterò perciò, e non è piccolo impegno e forse presunzione, ad un’analisi storica degli accadimenti di quel 1791, l’anno de La Clemenza di Tito, de Il Flauto magico, del Requiem e purtroppo della scomparsa di un genio che, nel campo musicale, non è stato finora eguagliato. Previde Haydn che un musicista di quel talento non si sarebbe sentito nei cento anni successivi alla sua morte. Ne sono trascorsi più di duecento e quella intuizione si rivela ancora oggi vera.
Nei mesi di giugno e luglio 1791 Wolfgang Amadè era rimasto a Vienna solo; Constanze con il figlio Karl si trovavano a Baden per il consueto trattamento di bagni che Frau Mozart praticava ogni anno per i postumi di una flebotrombosi a una gamba, intervenuta dopo il parto di Karl: sembra che la cura termale le giovasse.
Wolfgang che in quel periodo stava malvolentieri da solo, le scriveva lunghe lettere indirizzando a “Ma très chère épouse” che ora era in attesa del piccolo Franz Xavier. Alla “amatissima mogliettina” Wolfgang scrive, in un certo loro linguaggio segreto, strano ed affettuoso: “Ma chère Stanzi-Marini” o “Cara Unica Stru-Stru”…
Le mandava poi 2.999 bacetti, oppure 109506043708 o, infine, milioni di numericamente non specificati baci.
Alla svagata Constanze consigliava di dare a Karl del rabarbaro: e che lei prendesse per andar di corpo l’elettuario od il cremortartaro, evitando invece l’acqua carminativa.
Gran mania questa di casa Mozart, delle autoprescrizioni terapeutiche, un’eredità di Leopold.
Il tono delle lettere a Constanze è quello di un uomo sano, allegro: Wolfgang era tutto dedito alla sua musica ed in particolare al Flauto magico che entro fine luglio era scritto quasi completamente (mancavano solo l’ouverture ed il coro dei Sacerdoti), tra del buon caffè nero viennese e “una deliziosa pipata di tabacco”.
Il tono solito di Wolfgang: “faceva l’Arlecchino, il Pulcinella, il buffone salisburghese… con le capriole della maschera veneziana ed i giochi immateriali dell’Elfo romantico” dice Pietro Citati. E quel tono era così adatto alla parte di Papageno, il personaggio buffo del Flauto.
È forse un’attitudine che Mozart si impone per cercare di mitigare l’angosciante impegno del Requiem commissionatogli nella primavera?
Si inserisce qui inaspettatamente una lettera in italiano, quasi sicuramente diretta al suo librettista preferito Lorenzo Da Ponte, del settembre (ma senza indicazione del giorno), della quale possediamo solo una copia, essendo l’originale andato smarrito o sottratto.

A Lorenzo da Ponte (?)

Affmo Signore

Vorrei seguire il vostro consiglio, ma come riuscirvi? Ho il capo frastornato, conto a forza e non posso levarmi dagli occhi l’immagine di questo incognito. Lo vedo di continuo esso mi prega, mi sollecita, ed impaziente mi chiede il lavoro. Continuo, perché il comporre mi stanca meno del riposo. Altronde non ho più da tremare [sic]. Lo sento a quel che provo,che l’ora suona; sono in procinto di spirare; ho finito prima di aver goduto del mio talento. La vita era pur si bella, la carriera s’apriva sotto auspici tanto fortunati, ma non si può cangiar il proprio destino. Nessuno misura i propri giorni, bisogna rassegnarsi, sarà quel che piacerà alla provvidenza, termino, ecco il mio canto funebre, non devo lasciarlo imperfetto.

Vienna 7bre 1791

Probabilmente i toni della lettera sono un poco caricati. Quasi certamente Da Ponte, in disgrazia a Corte, chiedeva un piacere che Wolfgang non poteva fare all’amico abate: forse…
A parte le “piroette gioiose ed infantili” certo gli ultimi mesi di vita di Mozart furono caratterizzati da un’ansia nevrotica e da un certo disordine che lo spingeva a bere champagne e punch in abbondanza: dormiva molto poco, lavorando buona parte della notte.
Gli impegni non gli mancavano di sicuro. A parte il Requiem, c’era da portare a termine un concerto per clarinetto, la Kleine Freymaurer Kantate (KV 623). Doveva poi finire le due parti ancora non composte del Flauto.
Da tempo si recava di buon ora a quel Teatro auf der Wieden, diretto da Emmanuel Schikaneder. Era questo bavarese, da anni amico di Mozart, uomo di indiscutibile e versatile ingegno: attore, cantante, librettista, musicista, scenografo nonché impresario teatrale.
In uno dei cortili dell’enorme complesso edilizio di cui il teatro faceva parte, in un padiglione di legno – ora al Mozarteum di Salisburgo – fu ideato e scritto dai due amici quel capolavoro della musica e della fantasia che è il Flauto magico, l’ultima opera musicata da Mozart.
Fu il viaggio alla scoperta di un Egitto del quale, allora, si ignoravano le meraviglie sepolte sotto le sabbie del deserto, non ancora scoperte. I primi mirabili disegni di quei templi, del pittore ed incisore inglese Roberts, sono infatti solo del 1796.
Il viaggio ideale dei due amici nell’Egitto perduto si rifà certamente a Diodoro Siculo ed al saggio di Plutarco su Iside ed Osiride, nonché all’ultimo Libro delle Metamorfosi di Apuleio: è pure assai probabile che Schikaneder e Mozart abbiano consultato le raccolte del gesuita Athanasius Kircher con la sua Sphynx Mystagoga del 1676, il romanzo Sethos dell’abate J. Terrasson (1731), il saggio di Ignaz von Born sui Misteri dell’Egitto (1784) e forse I Viaggi di Pietro della Valle da lui medesimo descritti pubblicato a Bologna nel 1667, del quale Goethe dà notizia in un saggio alla fine de Il Divano Occidentale-Orientale.
Soprattutto Sethos viene considerato un precedente del Flauto magico: il principe Sethos compirà un viaggio iniziatico nella profondità della piramide di Cheope, considerata la tomba di Osiride. Anche in questo mitico Egitto esiste una Regina usurpatrice ed un principe, Sethos, alla ricerca non solo del suo trono legittimo ma anche della verità iniziatica. Sethos sarà il riferimento di Tamino del Flauto: il suo cammino iniziatico “verso la luce” principia dalla piramide, così come quello di Tamino dalla porta posta a nord del tempio di Sarastro.
I tempi erano adatti per una “rinascita” dei misteri egizi: il mondo degli Illuministi, con e dopo Voltaire, quello massonico e quello dei Giacobini erano alla ricerca di una religione universale e naturale, di un Deismo, al quale i riti iniziatici si attagliavano perfettamente.
Come si vedrà, nel Flauto i nomi di Tamino e Pamina (servo e serva del dio Min), le palme con foglie dorate dei Sacerdoti, il flauto stesso, sono quelli dell’ultimo libro delle Metamorfosi apuleiane, le piramidule portate a mo’ di lucerna dai Sacerdoti di Sarastro (Atto II, Sc. XIX) sono quelle che si trovano nelle tombe egizie.
Bisognerà certamente dare a ciascuno il suo merito. Il libretto del Flauto è letterariamente e culturalmente opera di Schikaneder, nella concezione generale e forse anche nell’ iter scenografico. Quanto a Mozart egli non era sicuramente digiuno di questi temi, non foss’altro che per avere, qualche anno prima del Flauto magico, scritto i cori e la musica di scena di Thamos, König in Ägypten (KV 336) per il dramma eroico di Tobias Philipp von Gebler, rappresentato a Salisburgo nell’inverno 1779-80.
Quella che può sembrare una favola fu così giudicata da Goethe: “Ci vuole più sapere per capire il valore di questo libretto che per schernirlo”.
Questa favola è assai più profonda di significati misterici ed etici - lo si vedrà - di quanto non possa sembrare al lettore superficiale o non avvertito.
È assai probabile, anzi sicuro, che il Flauto magico sia apparso a molti fra gli spettatori una favola per bambini (o per adulti), fantastica ed incantatrice. Ma non certo a tutti.
A Vienna non pochi in quel periodo erano Massoni, oltretutto in imminente pericolo per i provvedimenti restrittivi che Leopoldo II, da poco incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero, emise proprio il giorno della morte di Mozart, il 5 dicembre 1791. Essi sapevano che Mozart era un Fratello, iscritto alla Loggia “Zur Wohlthätigkeit” ed avevano con sorpresa udito un linguaggio loro familiare, relativo a profondi misteri, che Mozart aveva presentato in modo lieve, persino scherzoso (ma non del tutto, in verità).
In Austria il pensiero degli “Illuminati di Baviera”, diffuso soprattutto tra i protestanti si opponeva, in particolare a Vienna, alle logge templari, con i Rosacroce e con i gruppi dediti all’occultismo ed alle scienze ermetiche, perlopiù attive nell’ambito della Chiesa cattolica. In essi qualche storico vide la prefigurazione di un partito liberale di tendenze radicali (Valjavec).
Questa tendenza “illuminata” fu particolarmente attiva nella Loggia “Zur wahren Eintracht” di cui furono Maestri Venerabili uomini del livello culturale di Sommenfels e di Ignaz von Born, amico di Giuseppe II. In questo senso l’appoggio dell’Imperatore era quello di avere un alleato contro l’eccesso di privilegi della Chiesa. Inoltre gli “Illuminati di Baviera” consideravano Giuseppe II il sostenitore e realizzatore dei principi dell’Aufklärung, tanto da sperare nell’annessione della Baviera all’Austria.
La trama del Flauto magico non si intende, neppure oggi, se non conoscendo la storia che sta a monte di questa straordinaria favola. Ce la presenta in modo mirabile Pietro Citati e val la pena di seguire il suo racconto, sia pure in sintesi: ed è premessa indispensabile per comprendere l’opera.
Una coppia sovrana governa il Mondo, un Re solare e la potente Regina della Notte: tra luce e tenebra esisteva perfetta armonia. Dal loro incontro nasce la fanciulla regale Pamina.
Da una quercia millenaria il Re, novello Orfeo, taglia il “Ramo d’Oro” e ne trae un flauto magico, in accordo in questo con la Regina della Notte: accordo, questa volta, però solo apparente. Il Re portava sul petto il settemplice cerchio solare, benefico, capace di dare vita ma anche morte.
Con la morte del Re solare i due regni, dapprima uniti, si dividono diventando nemici l’un dell’altro, turbando così profondamente quell’Harmonia Mundi, quell’equilibrio del mondo che fino allora vi aveva regnato.
La Regina, vinta dall’opposto, Sarastro, il nuovo Re solare, perde la custodia di Pamina, ora affidata alle cure di Sarastro: con le sue dame è relegata in un castello, circondato da un fitto bosco nel quale solo un tempietto ricorda la sua condizione divina.
Sarastro, malgrado la sua forza, è un saggio Re d’Oriente, che governa con fermezza un popolo di Sacerdoti e di schiavi: la sua severità non impedisce al popolo di amarlo. “Es leben Sarastro, Sarastro soll leben” cantano Sacerdoti ed adepti.
Mai un Faraone d’Egitto – dice Citati – avrebbe condiviso le sentenze di Sarastro, che raccomanda le virtù della Ragione, della Tolleranza, dell’Amicizia, del Perdono e della Pazienza.
Capo di un mondo virile, dominato dalla Ragione e nel contempo dalla Forza, Sarastro, il Re-Sacerdote, ha sottratto, facendola rapire, Pamina alla negativa influenza della madre, la Regina della Notte.
La quale viene paragonata a Demetra, la Mater dolorosa alla ricerca della figlia Proserpina, rapita da Ade: come tale comparirà nella celebre aria n.4 della VI scena del I atto, “Zum Leiden bin ich auserkommen” (Al dolor sono stata prescelta). Si trasformerà poi in una “Erinni che prega gli dèi della vendetta”: “Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen” (Vendetta d’inferno mi brucia nel cuore), nel II atto, scena VIII, aria 14.

Incisa su un disco di rame ricoperto d’oro quest’aria, con altri frammenti musicali e messaggi per gli extraterrestri, viaggia sul Voyager 1 che da poco tempo ha superato i limiti del sistema solare. Chissà se mai altre orecchie (sistemi auditivi?) potranno tra 100 o 1000 anni sentirli e forse apprezzarli?
Ma non si riesce, malgrado tutto, a condannare la Regina della Notte: nel suo regno perduto spira ancora il soffio dell’Amore e ciò la rende, alla fine, fragile e femminile.
La sua scomparsa nell’abisso genera compassione anche se non è quella terribile di Don Giovanni, trascinatovi dal “Convitato di pietra”, l’inquietante statua animata che fa venire a mente quelle dell’Asclepius, anticipatore, in un certo senso, del Corpus Hermeticum tradotto da Marsilio Ficino.
Cenni e ricordi di un orfismo (almeno quello di matrice ellenistica) al quale si ricollega l’effetto del flauto magico sui leoni del carro di Sarastro, resi mansueti dalla musica, che è poi quella di Orfeo, ammaliatore di animali e piante. E persino l’uccellatore Papageno, infantile ma astuto personaggio, ingenuo ed ingordo, ha un suo precedente nell’uccellatore col vischio che compare nelle Metamorfosi di Apuleio: e non è il solo topos parallelo.
Parte da un “Sacro bosco” l’avventura di Tamino ed il suo cammino iniziatico: il principe orientale Tamino, alla ricerca dell’amore, che per lui sarà Pamina, principia la via amorosa ed iniziatica (sono la stessa cosa?) inseguito da un drago. Lo liberano dal mostro, uccidendolo, le tre Dame della Regina della Notte che lo sollecitano a ritrovare Pamina ed a sottrarla a Sarastro.
Dalla luce del mattino a quella del meriggio si passa alla tenebra tempestosa della notte. Qui principia il vero viaggio iniziatico di Tamino. I Sacerdoti, dal chiuso delle piramidi, invocano il ritorno del Sole e della Luce.
I due giovani, attraverso le prove dell’acqua e del fuoco, escono ora nella pienezza della luce solare mentre i Sacerdoti e Sarastro inneggiano alla Luce ritrovata.
Le prove del silenzio ed il mistero iniziatico sono quelle dei riti greci delle Metamorfosi di Apuleio. Qui però i segreti ed i riti sono resi più lievi, quasi giocosi, anche dalla presenza di Papageno, l’allegro compagno del viaggio, al quale l’essere iniziato nulla interessa e pensa ai dolci ed ai vini tentatori inviati da Sarastro ed ignorati da Tamino e Pamina.

La prova definitiva è data dall’incontro con la Regina della Notte, ora dea della vendetta, sentimento che non trova spazio nel regno di Sarastro, né nel mondo massonico al quale l’opera, per certi aspetti, fa riferimento, talora in modo neppure velato.
Il suono del Flauto magico consente così di superare ogni ostacolo: Tamino e Pamina sono ora gli iniziati di Iside e Osiride e, secondo Citati, persino dei martiri cristiani. Egli basa questa sua opinione, certo ardita, sull’uso nel Flauto, da parte di Mozart, di tre pezzi musicali, uno dell’epoca di Lutero, un corale ed un Kyrie della Missa Sancti Henrici del boemo-salisburghese Heinrich Ignaz von Biber. Paolo Isotta (1975) ritiene che Mozart abbia alluso con la sua musica alle tre persone della Trinità: “la iniziazione isiaca è, al tempo stesso, una iniziazione cristiana”.
Come si vede il problema relativo ad un’opera mozartiana ad impronta massonico-illuministica oppure cristiana ma con simbologia “illuminata” e, almeno in parte, accettata dal pubblico viennese, è complesso e merita qualche riflessione.
Lo storico e critico mozartiano Otto Jahn, il suo primo importante biografo, ci fa sapere che nel 1866 comparve uno scritto anonimo, in realtà di Moritz Zille, il quale ai personaggi del Flauto attribuiva una relazione con persone della Casa imperiale e dell’ambiente viennese: ad esempio la Regina della Notte era forse Maria Teresa, o Leopoldo II, Sarastro il saggio massone Ignaz von Born, Pamina il popolo viennese...
Questa concezione “massonica” del Flauto ha avuto un certo successo per molti anni, anche se da più parti si sosteneva che Mozart era un buon cattolico praticante, come appare anche da numerose sue lettere e non solamente in quelle dirette al padre. Vi è inoltre da ricordare che a molte Logge, in Austria come in Italia e Germania, erano affiliati, malgrado il divieto papale, non pochi ecclesiastici, sia cattolici sia protestanti e persino Vescovi.
Arthur Hutchings (1971) ritiene che Mozart non avrebbe mai aderito ad una Istituzione, nella quale del resto erano presenti molti spiriti liberali, se questa si fosse trovata in contraddizione con il dogma cristiano. In realtà nel Flauto magico i progetti massonici si fondono mirabilmente con una “cultura della fraternità” quale si ha nella più rigorosa tradizione cristiana e cattolica, come sostenuto da teologi quali Karl Barth per il protestantesimo ed Hans Urs von Balthasar per il cattolicesimo.
Questi atteggiamenti “positivi” hanno trovato da noi riscontro nell’opera di padre R.F. Esposito S.J., allievo di Giovanni Gentile, che ha speso la vita alla ricerca di un “ponte” tra Chiesa cattolica e Massoneria, con opere assai documentate, tra le quali si ricorderà “Mozart, fede cattolica, militanza massonica”.
Non entreremo qui nel problema dei rapporti tra Chiesa e musica “sacra” mozartiana se non per ricordare l’ostracismo a quest’ultima da parte del giurista e musicoloco tedesco Thibaud nella prima metà dell’Ottocento: atteggiamento successivamente combattuto, previa un’analisi critica dei ricordati Barth e von Balthasar. Negli anni recenti il problema è stato assai bene indagato dal teologo e musicologo Pierangelo Sequeri (1991, da ultimo 2006).
Si parla perciò oggi, da parte dei teologi, di un Mozart interprete dell’anima del mondo e della parola di rivelazione, attraverso il riconoscimento, in questo senso, della “singolarità mozartiana”. Questo conferma l’immagine di un Mozart per il quale la Massoneria non era l’alternativa al credo religioso ortodosso ma, piuttosto, un completamento sul piano umano del messaggio divino.
Ed il coro dei Sacerdoti chiude il Flauto con le seguenti parole:
“Es siegte die, Starke
Und Krönet zum Lochn
Die Schoenheit und Weisheit
Mit ewiger Kron’! ”
(Ha vinto lo spirito forte! Qui la bellezza e la saggezza siano quale premio incoronate con una ghirlanda immortale!).
Senza queste necessarie premesse difficilmente lo spettatore (si insiste, non basta ascoltare il Flauto magico, bisogna vederlo con adeguata regia) riuscirebbe a seguire la trama. Ma, compresa questa, resta da comprendere l’intimo messaggio che Mozart ha voluto affidare a questo che molti considerano, tra le sue opere, il compiuto capolavoro del genio salisburghese.
Per comprendere il Flauto, dice Giorgio Strehler, è necessaria allo spettatore-ascoltatore una “capacità di fantasia” più che di sensibilità e una “possibilità di partecipare ad un suo teatro immaginario… il più stupefacente ed il più vero”: necessità pertanto di una “rappresentazione”.
Occorre perciò anche, meglio senza dubbio, una regia che mantenga o crei equilibrio tra testo, musica e scena: cose da grande regista. Ecco perché la rappresentazione scaligera messa in scena da Strehler è stata ed è in questo senso insuperata ed insuperabile, direttamente coinvolgente (quale responsabilità!) lo spettatore quale elemento attivo. Il tutto in un ambito “cosmico-metafisico-simbolico”: e scusate se è poco!
L’apparato scenografico del Flauto rimanda non solo a Schikaneder, è stato detto, e Wieland, ma anche e soprattutto a Mozart questa volta “maestro di lettere” oltre che insuperato “maestro di musica”. Pur conscio del significato simbolico del Flauto, l’ascoltatore dovrebbe evitare di considerare l’opera un trattato di filosofia con musica. E non si può non concordare con questa equilibrata ed intelligente valutazione di tutto il contesto, certo complesso, ma la cui interpretazione trova largo appoggio nella sensibilità e fantasia di chi – con una certa preparazione – si avvicini a questo capolavoro, che parla con un linguaggio più universale che strettamente esoterico (che tale, credo, non lo vollero né Schikaneder né Wolfgang Amadè).
Certo l’integrità del testo, spesso anche cancellato qua e là in molte edizioni del Flauto, è essenziale alla buona comprensione del suo significato illuministico, ricco di spunti libertari che l’ascoltatore avvertito, di allora e di oggi, non può non apprezzare come espressione di una aspirazione a cose grandi e nobili. Perciò la lettura del testo completo è illuminante e consigliabile (vedi ad es.: Emmanuel Schikaneder, Il Flauto Magico, Pordenone, Ed. Studio Tesi, 19871 Trad. it con testo a fronte; e Mozart-Schikaneder, Il Flauto Magico, Trad.it., Milano, Rizzoli, 19751).
Almeno leggerlo, anche se poi, in senso scenico-teatrale, i tagli sono di fatto, necessari, inevitabili; ma quanto utile e assieme alla “prestoria” al Flauto, altrettanto e anche più indispensabile per “entrare” nella “favola-non favola”.
Già si è detto, per quanto riguarda il comportamento degli animali, forse feroci, al suono del flauto di Tamino, come essi vengano ammansiti dal flauto di Orfeo: per virtù della musica, concordano Strehler e Citati. Di lì procede la salvazione dell’anima, o almeno la sua vera consolazione. E sugli effetti magici (orfici) di questa musica insiste anche Ph. Sollers nel suo bel saggio Mistérieux Mozart (Paris, Plon, 2000) che preannuncia “une révolution aura lieu”, alla ricerca della felicità.
Ma voler trovare il razionale a tutti i costi in una favola ha poco senso: essa va accettata e vissuta come tale anche – e non è poca cosa – dagli interpreti che in quest’opera, più che in qualsiasi altra, debbono non trasformarsi in, ma diventare essi stessi i personaggi.
Persino il rituale massonico, del quale sono cenni nel Flauto, è stato considerato qualche cosa di non del tutto estraneo al pubblico viennese dell’epoca, come “il riflesso idealizzato di una Mitteleuropea pacificata”, in un’atmosfera di serena tolleranza, di amicizia, di aiuto reciproco, di fede in un mondo migliore. In fondo, il messaggio che era enunciato due anni prima negli “immortali principi dell’89”.
È questa interpretazione moderna fatta propria anche da G. Cacopardi (Flauto magico: mitologia e dintorni. Hiram, 4, 83-8, 2002), il quale nega ogni riferimento massonico per privilegiare quello esclusivamente umano.
Si tratta quindi, e a preferenza, della “conquista dell’umano” rivolta soprattutto al potere assoluto. Messaggio del passato ed aspirazione di un presente, il Flauto magico è stato definito “una favola per la ragione” (Musto e Napolitano) che dal mito e dalla storia rivolge all’Uomo un messaggio non perituro di alto significato morale.