Anno 5 - N. 14/ 2006
“Come la rivolta dei Taiping in Cina e la guerra di Crimea la guerra civile
americana avrà anch’essa conseguenze profonde sia sul piano della tecnologia militare sia sul piano strategico: è la prima guerra moderna .”
Cosa insegna
la guerra di secessione americana
Gli schiavi dovevano lavorare dodici ore al giorno e ricevevano per alimentarsi solo una farinata di mais con piselli e bacon. i miei antenati, che nello stesso periodo abitavano il lombardo-veneto, lavoravano anche quindici ore al giorno e avevano anche loro come tutto cibo la farinata di mais (che da noi si chiama “polenta”) – però senza piselli e senza bacon, che mangiavano, quando andava bene, una volta alla settimana. in compenso, erano sudditi come gli altri, anche se per motivi censitari non potevano votare
di di Paolo Brera
Imbalsamazione di soldato unionista
La guerra civile americana può essere vista come una delle tre grandi guerre di metà Ottocento destinate ad alterare profondamente il corso della storia umana. Le altre due sono la rivolta dei Taiping in Cina e la guerra di Crimea.
La rivolta dei Taiping è una classica insurrezione contadina. Tra l’inizio del secolo XVIII e la metà del XIX l’Impero di Mezzo conosce un forte sviluppo economico e demografico. Ma in termini di benessere, il secondo neutralizza il primo e si ha un peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, per il 90 per cento dedita all’agricoltura. Il malgoverno della dinastia Manciù spinge alla fine i contadini all’insurrezione. L’impero isolazionista degli insorti dura qualche anno e la necessità di difendersi dal contrattacco dei Manciù lo spinge a sfruttare anch’esso i contadini. Quando l’ultima piazzaforte dei Taiping cade, sono morte 20 milioni di persone. Nel pensiero confuciano, la rivolta contadina mostra che la dinastia regnante ha perso il favore del Cielo per i suoi errori di governo e spiana quindi la via a un cambio di regime che sarà preparato nell’arco di alcuni decenni dalla diffusione delle idee occidentali. Nel 1911, infatti, una sollevazione guidata da Sun Yat-sen proclama la repubblica. Le idee politiche dei suoi seguaci rappresentano un avanzamento rispetto alle dottrine illuministe dello Stato, in quanto riconoscono a questo non tre ma cinque poteri: accanto a quelli tradizionali anche quello di nomina e di controllo. In altri termini, nella Repubblica di Cina (oggi installata nella sola provincia di Taiwan) la designazione alle cariche della burocrazia statale è compiuta da un potere indipendente dall’Esecutivo e così pure il controllo sulla spesa e l’attività dello Stato.
La guerra di Crimea ha anch’essa profonde implicazioni economiche e sociali, accanto a quelle puramente militari. La guerra si svolge in territorio russo. Quattro corpi di spedizione – quelli inglese, francese, turco, e dopo un anno anche quello sardo – sbarcano sulla penisola, approvvigionando le proprie truppe via mare. L’esercito russo è costretto alla difensiva e tiene lungamente la fortezza di Sebastopoli. Fame, freddo e pessime condizioni di igiene decimano gli eserciti. Sul piano militare la guerra di Crimea segna l’introduzione delle granate esplosive, invenzione del francese Paixhans, e il debutto della gestione delle operazioni basata sulla logistica che troverà un ulteriore e impressionante sviluppo nella successiva guerra civile americana. I generali Robert Lee, poi comandante dell’Armata della Virginia occidentale confederata e George Brinton McClellan, comandante dell’Armata del Potomac e suo cautissimo antagonista, si trovano insieme davanti a Sebastopoli come osservatori militari presso il corpo di spedizione britannico. Dalla visione del campo di battaglia e degli ospedali militari, veri mattatoi dove cancrena, tifo e dissenteria mietono più vittime delle palle di fucile, Florence Nightingale trarrà l’idea della Croce Rossa.
Profondo è anche l’impatto della guerra sulla storia della Russia. Lo zar si accorge con orrore che di fatto la Crimea è più lontana dalla Russia, di cui fa parte, di quanto non lo sia da Londra e Parigi. I nemici riforniscono le proprie truppe via mare con una certa facilità, mentre le comunicazioni attraverso la pianura sarmatica sono difficili anche nelle stagioni propizie, che sono l’estate e l’inverno. Con le pioggie e le nevi dell’autunno e il disgelo di primavera, le carrarecce che solcano i campi diventano impraticabili e i fiumi non si possono navigare. Inizia un periodo di costruzioni ferroviarie che culminerà, nell’ultimo decennio del secolo, con la Transiberiana. Diventa urgente anche assicurare la stabilità politica dell’Impero, che nell’ultimo decennio è stata profondamente turbata dalle rivolte dei servi della gleba. La loro liberazione avviene nel 1861, pochi anni dopo la fine della guerra di Crimea. Il ruolo di questa guerra nel lavorio diplomatico che precede il conseguimento dell’unità nazionale italiana, infine, è troppo noto perché si debbano spendere troppe parole su di esso.
La guerra civile americana avrà anch’essa conseguenze profonde. Sul piano della tecnologia militare, essa marca l’emergere della mitragliatrice, del fucile a ripetizione, delle trincee e delle navi corazzate, oltre ai primi tentativi di realizzare imbarcazioni sommergibili (tutti infelicemente conclusi dalla morte degli equipaggi, per un motivo o per l’altro). Sul piano strategico, è la prima guerra moderna – cioè un conflitto totale, che coinvolge tutta la popolazione in tutta la sua vita quotidiana e in cui divengono fondamentali l’aspetto economico, quello ideologico e quello logistico. Sul piano sociopolitico, essa fa degli Stati Uniti un Paese molto più unitario anche se ancora federale (è a partire della guerra civile che l’espressione “United States” comincia ad essere usata come un singolare e non più come un plurale); inoltre la guerra libera gli schiavi – generando il problema razziale che verrà a maturazione nel corso del secolo successivo – e realizza il dominio del capitalismo industriale del Nord sull’intero Paese e sulla sua politica. Il successivo sviluppo economico accelerato porterà, negli ultimi anni del secolo, al sorpasso industriale degli Stati Uniti su Gran Bretagna e Germania guglielmina, la cui rivalità ipnotizza a lungo gli osservatori contemporanei.
Sul piano della geopolitica, dopo la guerra diventa chiaro che l’emisfero occidentale è impermeabile all’azione delle potenze dell’altra metà della Terra: appena finiscono i combattimenti della guerra civile, un’insurrezione abbatte il governo di Massimiliano d’Absburgo in Messico, che era stato posto sul trono dai francesi ma non potrà da loro essere efficacemente difeso. Il governo degli Stati Uniti comincerà a interferire in modo sempre più aperto con la politica interna dei Paesi dell’America Latina e verso la fine del secolo caccerà la Spagna dagli ultimi possedimenti coloniali, facendo delle Filippine una colonia, di Cuba un protettorato e di Portorico un territorio legato all’Unione. Sempre della fine dell’Ottocento è anche la conquista delle Hawaii. Questa evoluzione è in ultima analisi figlia della guerra civile, poiché appunto questa dà agli Stati Uniti una forte coesione interna, una unicità di intenti nell’azione internazionale e un sistema ideologico in grado di esercitare una forte attrattiva su altri Paesi e gruppi sociali, divenendo un fattore politico di rilievo.
La preparazione della guerra
Gli Stati Uniti del periodo coloniale sono un Paese poco sviluppato sul piano economico ma già molto significativo come esperienza politica e sociale. Le carte che istituiscono le singole colonie prefigurano le carte costituzionali che, a partire dalla Costituzione americana, si moltiplicheranno nei Paesi dell’Europa e delle Americhe. La legge consuetudinaria (Common Law ed Equity) comincia ad essere integrata dalla Statute Law, cioè da quanto dispone il potere legislativo: un’innovazione importante. La vita culturale è animata dalle idee illuministe e in politica agisce ampiamente la Massoneria, alla quale appartengono diversi fra i rivoluzionari che proclameranno l’indipendenza e in primo luogo George Washington.
I problemi che vengono risolti nei primi decenni sono il passaggio da una struttura di Confederazione a una di Federazione, con poteri di questa autonomi e paralleli a quelli degli stati; l’inclusione nella Federazione, con parità di diritti, di nuovi stati che sorgono su territori sui quali la sovranità appartiene agli Stati Uniti; la delimitazione dei confini con l’Impero Britannico a nord e con il Messico a sud, al prezzo di una guerra che costituirà un po’ la prova generale della guerra civile.
I problemi che restano aperti sono quello degli indigeni americani, quello della schiavitù e quello della delimitazione printuale precisi, dei poteri rispettivi degli stati e della Federazione. Con gli indiani d’America sussisterà per decenni una guerra di guerriglia relativamente poco costosa in vite umane e risorse materiali, destinata a chiudersi nell’ultimo decennio dell’Ottocento con i massacri delle tribù in rivolta nell’insurrezione della Danza degli Spettri.
Il problema del rapporto fra gli stati e l’Unione (la Federazione) finirà con l’intrecciarsi abbastanza strettamente a quello della schiavitù.
La guerra civile non sarà comunque la prima esplosione di quel problema. Era stata preceduta dalla Booze War e dalla crisi della Nullification. La prima è un’insurrezione popolare contro l’imposta sui distillati: al grido più o meno di “Libera acquavite in libero Stato” migliaia di persone avevano preso le armi e si erano ribellate al governo centrale. Più sobri e dunque più precisi nella mira, i soldati dell’Unione avevano avuto la meglio. La Nullification fu una crisi tra la Carolina del Sud e l’Unione riguardo a una questione doganale. Lo stato della Carolina aveva sostenuto il proprio diritto di annullare una norma federale che non le stava bene: dopo una controversia, aveva dovuto ripiegare.
Il problema della schiavitù nasce dalla divisione degli Stati Uniti in tre sezioni con un’economia differente. Nel Nordest del Paese emergono l’industria manifatturiera e quella armatoriale e si vengono a creare centri urbani importanti dove si riversano gli immigrati, molti dei quali vengono dalla Germania e dalla Scandinavia (ma ci sono già anche italiani ed europei dell’Est). La nascita del capitalismo non è stata un periodo di spensierate gioie in nessun Paese e il proletariato americano non se la passa troppo bene: povertà e insicurezza sono comunque alleviate dalla possibilità di spostarsi verso Ovest, nelle aree che si aprono alla colonizzazione, dove l’Unione si considera proprietaria della terra (gli indiani non contano) e la distribuisce gratuitamente a chi è in grado di recintarla. Il livello economico degli Stati Uniti, durante tutto l’Ottocento, è inferiore a quello della Gran Bretagna, ma i tassi di sviluppo sono elevati e le enormi ricchezze naturali che vengono aperte allo sfruttamento consentono un rapido aumento della popolazione. L’immigrazione, inserendo nel mercato del lavoro uomini e donne adulti e produttivi che non sono costati nulla al Paese di arrivo e per giunta non hanno nessun riferimento tradizionale alla quantità del lavoro inerente a ciascun impiego (e quindi possono essere sfruttati), alimenta una sistema produttivo sempre più poderoso. Gli americani si dimostrano molto abili anche nel copiare, adattandola e migliorandola, la tecnologia sviluppata all’estero. La guerra civile li rivelerà anche grandi innovatori in proprio. L’industria produce per il mercato interno, cioè per l’Ovest e il Sud. Ha bisogno di tariffe doganali alte perché non è competitiva con le produzioni britanniche e francesi.
La seconda sezione dell’economia americana è costituita dalle zone di più recente insediamento della valle del Mississippi-Missouri, della costa del Pacifico e delle Montagne Rocciose. Qui il settore dominante è il settore primario, cioè l’agricoltura, l’allevamento e le miniere. L’agricoltura, estensiva, è gestita da aziende familiari che però producono già sopra tutto per il mercato: e il mercato è quello delle città industriali del Nordest. L’allevamento è condotto su scala più vasta ma anch’esso condivide il mercato nordorientale: l’invenzione del processo di inscatolamento contribuisce al suo decollo. Chicago, la capitale del Midwest, nasce e si sviluppa come un grande centro di macellazione. Socialmente, allevatori e agricoltori sono ostili alla schiavitù: non è un sistema di produzione efficiente. Le tariffe doganali non sono un problema per chi vende su un mercato interno che tira sempre e non può comprare dalle industrie estere per motivi geografici. Perciò questa zona economica è alleata naturale di quella del Nordest, dalla cui prosperità dipende l’ampiezza del suo mercato.
Un avversario naturale è invece l’economia del Sud. Anche il Sud è diviso al proprio interno, ma il potere economico è nelle mani di un ceto di piantatori aristocratici che coltiva tabacco, cotone, tè e riso. Con l’avanzata dell’industrializzazione in Gran Bretagna e Francia, sopra tutto il cotone diventa il massimo hard currency earner (la maggiore fonte di valuta estera) degli Stati Uniti. La coltivazione del cotone è ad alta intensità di lavoro e quindi richiede una manodopera stanziale, non una manodopera salariata libera di muoversi in cerca di condizioni migliori. Il ceto dei piantatori è una specie di aristocrazia terriera ricca, colta e cosmopolita. Essa disprezza i contadinacci dell’Ovest e ancor di più i commercianti e i finanzieri del Nordest; la parola “salariato” è per essa un’espressione oscena, al punto che mentre nel Nord gli stati non schiavisti vengono definiti free states, nel Sud li si chiama hireling states. I suoi valori sono quelli di sempre delle aristocrazie militari, ed è perfettamente conscia di rappresentare una classe che vive del lavoro delle altre. I piantatori amano il lusso e si ritengono in diritto di spendere come vogliono i soldi guadagnati esportando cotone , senza essere costretti dai dazi a comprare beni prodotti nel Nordest.
Alle contrapposizioni economiche si somma dunque una contrapposizione anche sociale e ideologica. In nome della libertà, nel Nordest sorgono associazioni abolizioniste che vogliono liberare gli schiavi e tenere alti i dazi. In nome della libertà, nell’Ovest uccidono gli indiani, occupano le terre così ripulite e si pronunciano per il sistema del lavoro salariato; nella peggiore delle ipotesi, sul tema della schiavitù sono neutrali. In nome della libertà, il Sud difende il diritto degli stati di farsi le proprie leggi, a cominciare da quelle che, prese insieme, definiscono la peculiar institution della schiavitù. Riguardo alla quale, peraltro, noi oggi siamo male informati da quella che è, nell’essenza, la propaganda dei suoi avversari - in quanto tale, non sempre veritiera.
La schiavitù nella società e nella politica
La società schiavista degli stati del Sud ha un suo diritto, un aspetto economico, uno sociale, uno ideologico e uno politico.
Il diritto degli stati del Sud ha le sue basi nella Common Law inglese, con l’eccezione di quello della Louisiana che si fonda sul diritto romano (Civil Law in inglese). Prima della guerra civile esso identifica nello schiavo un bene materiale e non un cittadino. Un giudice del Tennessee si spinge fino a dire che nel caso degli schiavi non si può parlare di diritti, che il potere del proprietario è «la più completa tirannia». Il diritto di molti stati del Sud peraltro pone diversi limiti al potere dei proprietari sugli schiavi. (Le leggi infatti possono essere anche molto diverse da stato a stato). Sopra tutto in quelli che confinano con stati dove la schiavitù è proibita, esse sono però sanguinarie nei confronti degli schiavi fuggiaschi e sovente di quelli anche solo un po’ ribelli. In molti stati allo schiavo non è consentito contrarre matrimonio. Alcuni, però, riconoscono allo schiavo il diritto a qualche proprietà personale. È proibito ai proprietari insegnare agli schiavi a leggere e scrivere. Ma la proibizione, che non esiste in tutti gli stati, non viene comunque fatta rispettare in modo fiscale.
L’interazione politica fra Nord e Sud fa sì che alla schiavitù vengano imposti nel corso della prima metà dell’Ottocento sempre maggiori limiti, anche se a volte, come nel caso Dred Scott che si trascinerà nei tribunali per undici anni, questi avranno il risultato paradossale di coonestare leggi favorevoli alla schiavitù. I limiti imposti riguardano prima di tutto la tratta, proibita fin dai primi decenni dell’Ottocento – ma elusa da imprenditori risoluti, in genere della Nuova Inghilterra: l’ultima nave negriera sarà intercettata dalle navi dell’Unione che effettuano il blocco navale della Confederazione, a guerra civile già in corso: batte la bandiera di New York, uno stato adamantino nella sua radicale opposizione alla schiavitù.
Altri limiti riguardano la possibilità di ammettere nell’Unione stati schiavisti: sarà raggiunto un compromesso politico che di fatto ne impedirà l’ingresso, lasciando intravedere al Sud un futuro in cui sarebbe stato schiacciato dal predominio numerico degli antischiavisti. Infine, il compromesso politico a livello di Unione limita la facoltà di inseguire gli schiavi fuggiaschi negli stati dove la schiavitù è illegale. Limita, ma non esclude, come dimostra il caso di Dred Scott.
Dred Scott è uno schiavo che sostiene di essere diventato libero per avere abitato, insieme al suo padrone, in uno Stato dove la schiavitù non era lecita. Si apre una lite giudiziaria fra Dred Scott e il suo proprietario: non è certo che Scott possa intentare causa, essendo uno schiavo; una sentenza intermedia trova che non può accampare diritti, perché comunque non è un cittadino americano. Tutta l’ipocrisia del sistema politico americano (c’è dell’ipocrisia in qualunque sistema sociopolitico, beninteso) sembra concentrarsi sul caso di questo schiavo che non accetta di essere tale. Finirà per morire in schiavitù e il suo caso costituirà un precedente a favore di certi aspetti della peculiar institution.
Sotto l’aspetto economico, il vantaggio offerto dal sistema schiavistico al proprietario è la possibilità di avere assicurato il lavoro dei suoi schiavi, il che è importantissimo nei periodi del raccolto. Questo vantaggio è controbilanciato, e secondo alcuni più che controbilanciato da una serie di svantaggi. Lo schiavo deve comunque essere mantenuto, quindi non è facile farlo lavorare. Lo schiavo tende a essere menefreghista nei confronti delle attrezzature che gli vengono affidate, le rovina per sbadataggine o per incompetenza: ciò avviene perché il rapporto fra gli strumenti del suo lavoro e il suo proprio mantenimento è solo indiretto (qualcosa di simile si osservava anche nei paesi comunisti e si incontra in generale nelle burocrazie statali). Lo schiavo non ha una spinta autonoma a migliorare la propria competenza professionale. Infine, lo schiavo deve essere mantenuto anche quando è vecchio e improduttivo, e costituisce quindi un costo che l’imprenditore che si serve di manodopera salariata non deve sostenere. Nel New England se hai bisogno del lavoro di qualcuno lo assumi, lo paghi the going rate e poi lo licenzi. Non devi preoccuparti né che sopravviva oltre il periodo per il quale l’hai assunto né che abbia abbastanza cibo e vestiti per sé e la famiglia. Meno ancora sei tenuto a garantire che abbia dove abitare. Il proprietario di schiavi invece ha il dovere di alloggiarli, vestirli e dargli da mangiare.
Può risparmiare sul cibo, certo. Un lavoro sull’economia della schiavitù deplora il fatto che in Georgia, nel periodo del raccolto, gli schiavi dovevano lavorare dodici ore al giorno e ricevevano per alimentarsi solo una farinata di mais con piselli e bacon. I miei antenati, che nello stesso periodo abitavano il Lombardo-Veneto, lavoravano anche quindici ore al giorno e avevano anche loro come tutto cibo la farinata di mais (che da noi si chiama “polenta”) – però senza piselli e senza bacon, che mangiavano, quando andava bene, una volta alla settimana. In compenso, erano sudditi come gli altri, anche se per motivi censitari non potevano votare.
L’azienda schiavistica presentava alcune divertenti particolarità contabili. Il valore degli schiavi era iscritto a bilancio nello stato patrimoniale come un’immobilizzazione materiale, che aveva un valore iniziale e veniva ammortizzata come qualunque altro bene capitale. (I consumi degli schiavi comparivano invece nel conto economico tra i costi). Se questo può apparire singolare, consideriamo che esattamente la stessa cosa si fa nelle società calcistiche per il valore dei contratti dei giocatori. La maggior parte delle altre imprese non distingue contabilmente nei bilanci il valore capitale del diritto alla collaborazione di coloro che apportano all’impresa il loro lavoro, ma questo è comunque una parte dell’avviamento (goodwill), il quale rappresenta un bene capitale sui generis.
Sul piano sociale, la schiavitù era un fenomeno molto più complesso di quanto non apparisse in un testo destinato a rivelarsi politicamente dirompente come La capanna dello zio Tom. L’autrice Mary Beecher Stowe non si era mai avvicinata a meno di qualche miglio da nessuno schiavo e non aveva la minima idea di come andassero le cose negli stati schiavisti. Mary Boykin Chesnut, donna colta e raffinata e grazie alla posizione del marito dotata di un ottimo punto di osservazione sulla società del Sud, annota sul suo celebre Diario (la traduzione è mia):
«Ho letto di nuovo La capanna dello zio Tom. Queste negre hanno qui una possibilità che le donne non hanno da nessun’altra parte. Possono redimersi – le “irregolari” possono. Possono fare un matrimonio decente, e tutto è dimenticato ciò che potrebbe essere rimproverato a queste signore di colore. Non è un bell’argomento, ma la signora Stowe ci si diverte molto. Che sensazione deliziosamente farisaica dev’essere quella di salire su un piedistallo e immaginarsi che noi siamo così degradate da difendere (e viverci insieme) creature tanto degradate intorno a noi – uomini come Legree e le sue donne.
«La maniera migliore di rendersi cari i negri è di allontanarsi da loro il più possibile. Per quanto posso vedere, le donne del Sud fanno tutto quello che potrebbero fare i missionari per impedire e alleviare i mali. Il male sociale non è stato tolto di mezzo nella vecchia o nella Nuova Inghilterra, né a Londra né a Boston. In quei posti la gente si aspetta da un africano delle piantagioni un grado di virtù maggiore di quella che essi stessi possono assicurare fra loro con tutti i loro alti supporti morali – luce, istruzione, addestramento e assistenza. Lady Mary Montagu dice: «Infine, sono solo uomini e donne». «Ed Egli creò maschi e femmine», dice la Bibbia. Ci sono crudeli, graziose e belle madri di angeliche Eve tanto al Nord quanto al Sud, oserei dire. Gli uomini e le donne del Nord che sono venuti qui sono sempre stati i più duri, perché si aspettavano che gli africani lavorassero e si comportassero come un bianco. Noi non ce lo aspettiamo.»
Come suo marito, assistente del presidente confederato Jefferson Lee, Mary Boykin Chesnut non era favorevole alla continuazione della schiavitù. Verso i neri aveva l’atteggiamento benevolo tipico delle persone di buona indole delle classi superiori nei confronti dei loro sottoposti. Non aveva però nessun dubbio che il colore della pelle situasse la gente in categorie specifiche: tutti esseri umani, senza dubbio, ma distinti anche internamente e non solo esteriormente, e quel che è più, concettualmente dotati di diritti e di doveri diversi, sanciti dalla natura.
L’esercizio effettivo dei diritti assoluti spettanti per legge ai proprietari degli schiavi sulle loro “proprietà” era nei fatti limitato dalla consuetudine. La pressione sociale contro chi maltrattava gli schiavi era fortissima. L’uccisione di uno schiavo poteva portare all’ostracismo e non era affatto frequente, almeno da parte del padrone – la legge però era rigorosa e accadeva spesso che uno schiavo venisse giustiziato, con grande dispiacere del padrone che doveva registrare nel suo conto economico una sopravvenienza passiva: ma in quel secolo la stessa cosa capitava facilmente ai liberi; nel Lombardo-Veneto le esecuzioni capitali erano eventi frequentissimi, non passava si può dire una settimana senza che qualcuno venisse fatto salire sul patibolo.
Anche l’abbandono di un vecchio schiavo era disonorevole per il suo proprietario, mentre il vestire male i propri schiavi era considerato una sciatteria indegna di una persona per bene. Separare la moglie dal marito con la vendita di uno soltanto dei due era agli occhi della gente del Sud una mala azione, così come lo era separare la madre dai figli piccoli. Certo, teoricamente era lecito, però non si doveva fare. Per molti aspetti, la schiavitù era un sistema patriarcale, con i pregi e i difetti di quei sistemi. Fra gli schiavi e i loro proprietari spesso esisteva un rapporto affettivo.
E non solo affettivo, a volte anche erotico. L’indulgere al sesso con le proprie proprietà umane era veniale per un piantatore, impensabile per la moglie o le figlie – e sarebbe costato la vita allo schiavo di sesso maschile che fosse stato scoperto. Quanto alle schiave, dovevano obbedire.
Anche altri aspetti della condizione di schiavo erano sicuramente negativi. (Per noi ciò è scontato ed è per questo che mi sono concentrato piuttosto su quegli aspetti che riducevano il malessere complessivo di chi si trovava in quella situazione. La condizione di schiavo era nel suo insieme meno dura da sopportare di quanto non sia descritto dagli avversari della schiavitù, che essendo risultati vincitori hanno avuto la possibilità di tramandare un numero maggiore di documenti sul tema). Per esempio, in alcuni stati non era previsto che gli schiavi si sposassero, e tutti i rapporti amorosi che si instauravano fra loro erano puramente consuetudinari. Ma anche là dove il matrimonio esisteva, non era facile né frequente. La vita familiare era sottoposta alle durezze dell’economia: i figli adolescenti potevano essere venduti «a valle del fiume» e non rivedere più i propri genitori.
Quanto al lavoro, certamente era duro. Bisogna però ricordare che era duro anche per i cittadini liberi. Alle condizioni di povertà e oppressione degli schiavi gli esponenti politici dell’aristocrazia del Sud avevano buon gioco nel contrapporre quelle degli operai di fabbrica e in particolare delle operaie. Gli accenti degli schiavisti della Confederazione nel descrivere quelle miserie assomigliano da vicino a quelli di Karl Marx, il cui pensiero, per ironia della storia, avrebbe fornito la giustificazione ideologica per due tra i più grandi esperimenti schiavistici del secolo scorso, la Russia di Stalin e la Cina di Mao.
Gli schiavi erano marcati da vicino dall’intera società bianca, che li sorvegliava. Non potevano spostarsi troppo lontano senza essere accompagnati. Non avevano il diritto di imparare a leggere. Erano fustigati per il reato di “insolenza”, definito in modo tale che era assai facile caderci per qualunque persona con un minimo di dignità personale. Lo schiavo fuggiasco era passibile di morte, all’arbitrio del proprietario o, in alcuni stati, di mutilazione.
Anche una volta liberato, l’ex schiavo aveva di fatto diverse restrizioni alla sua libertà di movimento. L’aspetto fisico era una condanna: chi aveva sangue africano era facile da individuare e spesso toccava al liberto, di fronte a una posse di bianchi che lo prendevano per uno schiavo fuggiasco, provare la sua condizione libera.
L’ideologia della schiavitù non era particolarmente innovativa. Coloro che giustificavano questa peculiar institution invocavano il fatto che la schiavitù era considerata cosa pacifica nella Bibbia, e si rifacevano al Codice di Giustiniano, adottato quando l’Impero Bizantino era ormai da tempo uno stato cristiano con una profonda vocazione missionaria. Se Dio non aveva pensato di condannare l’istituzione della schiavitù nel Suo libro rivelato, perché i fanatici abolizionisti, spesso persone che sul piano religioso avevano convinzioni fondamentaliste come John Brown, volevano piegare alle loro idee le scritture? Il lavoro salariato era forse meglio della schiavitù?
L’ideologia si alimentava anche di una concezione della diseguaglianza razziale che era, nell’Ottocento, assolutamente generale. Paradossalmente, al riguardo c’erano meno pregiudizi nel Sud che in altre parti del mondo. La coesistenza fra bianchi e neri era così stretta e quotidiana da rendere impossibile l’odio razziale. Su un piano più politico, gli esponenti del Sud facevano notare che la Costituzione degli Stati Uniti riconosceva la schiavitù, e che gli stati dell’Unione, avendo aderito a quel patto fondamentale, non avevano ora il diritto di rinnegarlo per sé e per gli altri. Questa sarà appunto la base ideologica della secessione: essendo stato violato il patto, esso non era più valido e tutti potevano riprendersi la propria libertà. Così come vi erano entrati liberamente, dall’Unione gli stati potevano liberamente uscire e decidere di associarsi in modo diverso. Gli ostacoli alla schiavitù (di abolizione generalizzata si parlò solo dal Capodanno 1863, quando Lincoln, dopo la ritirata di Lee dal Maryland, decise che era tempo di innalzare quella bandiera) erano ostacoli alla proprietà privata, che era uno dei sacri principi della Costituzione.
La guerra guerreggiata
La secessione della Confederazione (Confederacy; nome ufficiale, Confederate States of America) avvenne nel 1860, ma il presidente Lincoln non volle accettarla e cercò a lungo un compromesso. Nella baia di Savannah fu mantenuto un avamposto unionista, Fort Sumter, che i confederati attaccarono il 12 aprile 1861. C’erano state scaramucce minori anche prima, ma le cannonate del bombardamento di Fort Sumter sono considerate i primi colpi della guerra civile, così come la resa di Lee, il 9 aprile 1865, ne è considerata la fine nonostante i casi di resa verificatisi nelle settimane successive. La guerra doveva risolvere per il Sud tre scommesse: una ideologica, una militare e una geopolitica. Le scommesse del Nord erano anch’esse tre, ma al posto di quella geopolitica ce n’era una economica.
La scommessa ideologica del Sud era la difesa della libertà (degli stati), della proprietà (gli schiavi) e di un modo di vita fondato sull’onore cavalleresco. Vi furono due stati dell’Unione che non secessero sebbene fossero schiavisti: il Maryland e il Delaware. Il Missouri si mantenne in pratica terra di nessuno. Il Kentucky rimase a lungo indeciso ma si schierò con l’Unione quando il presidente confederato Jefferson Davis vi mandò le truppe in grigio per aiutarlo a decidere. In nome della libertà il generale Lee invase il Maryland per convincerlo a staccarsi dall’Unione, con una mezza idea che l’esempio potesse essere seguito dal Delaware. In realtà l’esercito con cui Lee varcò il Potomac era a tal punto stracciato (molti soldati non avevano neppure le scarpe ed erano visibilmente denutriti) che l’effetto propagandistico fu mancato totalmente. Nell’Unione tuttavia esistettero sino alla fine forti correnti politiche propense a lasciar andare gli stati del Sud. La Virginia, il maggiore stato della Confederazione, dovette a sua volta affrontare la secessione della sua parte occidentale, dove la società non comprendeva agricoltori proprietari di schiavi ma solo piccoli farmer. All’inizio della guerra il West Virginia dichiarò la propria secessione, che si conserva ancora oggi e aderì all’Unione.
La scommessa militare era audace, ma un po’ meno di quanto non sembri a prima vista. «Uno di noi può stendere dieci yankee», usavano dire quelli del Sud. In effetti, nessuno può negare i prodigi di valore dei sudisti. Ma il Nord aveva una popolazione molto maggiore (23 milioni di abitanti contro i 9 milioni del Sud) e un’industria molto più sviluppata.
Lo squilibrio però era in parte compensato dalla diversità dei rispettivi problemi militari. Per vincere, alla Confederazione bastava non perdere, cioè dimostrare che non si faceva schiacciare. Il Nord doveva invece ridurre all’obbedienza il Sud. La Confederazione aveva quindi il grande vantaggio della difensiva. Più che nelle fortificazioni, tale vantaggio si esprimeva nel fatto che gli unionisti dovevano allungare le loro linee di rifornimento per invadere il Sud e distaccare truppe per difenderle in un territorio ostile, mentre gli eserciti in grigio potevano, entro certi limiti, «vivere del Paese». Le brillanti azioni di cavalleria dei confederati potevano contare su questo. La sproporzione numerica dei due eserciti era inoltre minore di quanto non apparisse, perché quasi tutti i servizi nelle armate del Sud erano svolti da schiavi, che non venivano conteggiati fra i combattenti, mentre l’unione contava tutte le persone in divisa.
La scommessa geopolitica del Sud si basava sul ruolo della Confederazione come fornitore di cotone all’industria europea e su considerazioni geopolitiche abbastanza elementari. Inghilterra e Francia avevano bisogno del cotone e il blocco navale effettuato dall’Unione glielo negava. Inoltre, non avevano interesse che sul continente nordamericano si affermasse una potenza priva di contrappesi. Fino all’ultimo la Confederazione sperò in un intervento. Il 26 febbraio 1865, a sei settimane dalla capitolazione, Mary Boykin Chesnut scrisse, riferendo l’opinione di un altro:
«…e adesso l’Inghilterra e la Francia sono costrette a intervenire. L’Inghilterra deve sapere che se gli Stati Uniti d’America sono vittoriosi il loro prossimo passo sarà occuparsi di lei, e la Francia deve domandarsi se non le toccherà rinunciare al Messico…»
Ma frasi come queste corrispondevano alla fede nelle “armi segrete” che potevano avere alcuni tedeschi e italiani negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale e non ebbero miglior sorte. Era esatto che Inghilterra e Francia avrebbero avuto interesse a impedire che gli Stati Uniti si rafforzassero. Per questo, forse, la Russia – appena sconfitta appunto dagli altri due Paesi in Crimea – mantenne per tutto il conflitto un atteggiamento coerentemente unionista. L’Inghilterra arrivò a un passo dall’intervenire quando la marina americana bloccò una nave inglese al largo della Georgia e arrestò un inviato confederato che si trovava a bordo. Ma non si decise mai. E uno dei motivi lo vedremo dopo.
La scommessa ideologica dell’Unione riguardava… l’Unione e la necessità di preservarla. Solo in un secondo tempo fu sollevato il vessillo dell’emancipazione e dunque della libertà economica.
Sul piano militare l’Unione doveva vincere. La scommessa era che la superiorità in uomini e materiale avrebbe finito per assicurare la vittoria al Nord.
Sul piano economico, il blocco navale avrebbe strangolato il Sud, impedendogli di sostenere lo sforzo bellico. Più avanti, la scommessa militare fu cambiata, in modo radicale, dal feroce generale Sherman.
Le operazioni militari conobbero tre teatri maggiori e un certo numero di minori. Fra i minori bisogna citare le operazioni della cavalleria confederata nel Kentucky, guidata da John Forrest, le azioni delle tribù indiane che si erano alleate della Confederazione nella speranza (vana) di arrestare il genocidio e la sporadica guerriglia nel West e in California. Più importante l’azione delle navi corsare della Confederazione, fra cui l’Alabama. Costruite in Europa, presero il mare per martellare le flotte commerciali dell’Unione. Il mare rappresenta il primo dei teatri principali di guerra. L’Unione impose presto il blocco navale e questo blocco divenne gradualmente più efficace. In diversi casi, dal mare vennero sempre effettuati sbarchi di truppe che occuparono alcune aree. La guerra sulla terraferma si concentrò da una parte nel nord della Confederazione, dove le due capitali Washington e Richmond erano piuttosto vicine e furono alternamente minacciate dagli eserciti avversari, e dall’altra sul Mississippi.
Nonostante il loro valore, i confederati furono gradualmente respinti da buona parte del loro territorio. Dalla valle del fiume Mississippi, che una volta controllato dall’Unione venne a tagliare in due il territorio della Confederazione, le truppe nordiste dilagarono su Atlanta, capitale della Georgia. Lì iniziò la guerra new look di Sherman. La debolezza dell’Unione non erano forse le lunghe linee di rifornimento? Lui intendeva vivere delle risorse locali, e quelle che non poteva requisire le avrebbe distrutte per impedire agli avversari di fare altrettanto. Per quaranta chilometri da una parte e dall’altra del cammino delle sue colonne tutto ciò che era opera dell’uomo fu bruciato. La popolazione civile soffrì orribilmente. L’inverno del 1865 portò fame, freddo e malattie.
La guerra civile rimane a tutt’oggi quella in cui è morto il maggior numero di americani. Il fucile a ripetizione e la mitragliatrice provocarono una evoluzione della tattica: la combinazione di una trincea con un campo aperto davanti ad essa divenne il più usuale campo di battaglia. Le truppe attaccanti dovevano coprire lo spazio fino alla trincea avversaria nel più breve tempo possibile. Le perdite erano ivariabilmente molto alte. Ma un numero ancora maggiore di soldati moriva in ospedale per le conseguenze delle ferite, oppure delle malattie collegate alla mancanza di igiene. Una sorte particolare toccò ai prigionieri nordisti: dopo i primi mesi di guerra, l’Unione smise di scambiare i prigionieri, puntando al logorio delle risorse umane della Confederazione: scambiare alla pari i prigionieri, un soldato blu contro uno grigio, era più conveniente per il Sud. Di conseguenza, la Confederazione dovette istituire dei campi di concentramento per i prigionieri nordisti, il più famoso dei quali fu Andersonville. Il problema era la drammatica povertà della Confederazione e la precarietà delle sue risorse logistiche. Andersonville si trasformò ben presto in un incubo, con poco cibo, un affollamento spaventoso e condizioni igieniche disastrose. I prigionieri morirono come le mosche. Quando arrivò Sherman, quelli ancora vivi avevano lo stesso aspetto che avrebbero avuto ottant’anni dopo i detenuti di Auschwitz.
Sul piano strategico, divenne evidente che la guerra la vincevano le ferrovie e le fabbriche che stavano dietro le linee del fronte. Fu, per la prima volta nella storia, una guerra totale, in cui la popolazione civile dovette soffrire la fame e lavorare al limite delle proprie forze per sostenere lo sforzo bellico.
In mare vi fu un altro grande sviluppo. Nella più pulcinellesca segretezza, i confederati eseguirono sulla nave Merrimac, catturata agli unionisti e ribattezzata “Virginia”, una serie di innovative trasformazioni destinate a farne un’arma micidiale. Con legno massiccio e placche di ferro il Virginia fu reso invulnerabile ai proiettili di artiglieria. Gli unionisti si misero anche loro a fare esperimenti, e riuscirono a mantenere il segreto meglio dei loro avversari. Con tutto questo, quando il Virginia uscì in mare aperto per forzare il blocco navale, gli unionisti furono colti alla sprovvista. La corazzata era lenta come la lancetta dei minuti, una barca a remi sarebbe riuscita a sfuggirle, ma nessuno ancora sapeva quanto terribilmente necessario fosse sfuggirle, e la flotta dell’Unione le mosse incontro per affrontarla. Il Virginia liquidò in quattro e quarantotto ben quattro navi nemiche e rientrò in rada per la notte senza aver subito – nonostante l’intenso fuoco di artiglieria cui era stata sottoposta – danni degni di nota. Il giorno dopo uscì nuovamente. Ed ebbe la sorpresa di imbattersi in un’imbarcazione dieci volte più piccola ma non meno corazzata, il piccolo Monitor che era stato allestito dagli unionisti e per pura combinazione si trovava quel giorno nei pressi perché stava effettuando un trasferimento segreto. Le due navi si scambiarono le normali cortesie, dei più diversi calibri, che usano fra nemici galleggianti. Poi ritornarono alla base.
Il fatto che l’Unione avesse delle corazzate – un concetto nuovo – fu probabilmente alla radice del mancato intervento dell’Inghilterra e della Francia, che disponevano solo di navi in legno, risultate molto periture dopo lo scontro. Anche se l’antipatia dell’opinione pubblica inglese e francese nei confronti della schiavitù giocò indubbiamente a sua volta una parte di rilievo nella decisione di non schierarsi militarmente dalla parte dei confederati.
Ironie, questioni della guerra e
del dopoguerra
Se la Confederazione era entrata in guerra per difendere un certo modo di vita, di questo modo di vita il corso delle operazioni militari determinò il crollo prima ancora che si arrivasse alla vera e propria sconfitta. Negli ultimi mesi di guerra Jefferson Davis proclamò la liberazione degli schiavi, in parte riconoscendo una situazione di fatto – erano numerosissimi gli schiavi requisiti e impiegati nei servizi ausiliari dell’esercito – in parte nella speranza di rimuovere un importante ostacolo alla partecipazione di Inghilterra e Francia al conflitto.
Non andò meglio all’Unione. Il punto era che si dovesse preservare l’Unione, ma negli anni successivi, complice anche la morte di Lincoln che aveva assunto una posizione più conciliante nei confronti degli ex ribelli, gli stati del Sud non furono considerati membri a parità di diritti dell’Unione ma terra di conquista, da assoggettare a uno sfruttamento indiscriminato. Solo con il passare dei decenni il Sud tornò ad essere parte integrante, a parità di diritti, della federazione americana. Come ho già accennato, un’eredità della guerra civile sul piano grammaticale è il fatto che l’espressione “United States” è stata da allora considerata un singolare, mentre in precedenza si usavano i verbi al plurale come si fa tuttora in italiano.
Gli abitanti del Nord non credevano affatto nell’eguaglianza delle razze. La liberazione degli schiavi era un’esigenza astratta, ma coloro stessi che combattevano per realizzarla non volevano poi tra i piedi troppi negri. Lincoln stesso aveva dichiarato ad alcuni rappresentanti dell’intellettualità afroamericana che ci sarebbe dovuta essere una separazione fra le due razze, i neri sarebbero dovuti tornare in Africa. Al che i suoi interlocutori avevano ribattuto che loro non erano meno americani di lui. In un episodio tristemente famoso svoltosi dopo un paio d’anni di guerra, la popolazione di New York insorse contro le sofferenze della guerra e massacrò un centinaio di neri, incolpandoli di esserne la causa. I neri stessi si impegnarono abbastanza poco nella loro liberazione.
Quelli del nord, perché di rado ebbero la possibilità di farlo. Quelli del sud, perché forse sulla politica faceva premio il modo di vita. La guerra spinse via dalle piantagioni gli uomini validi, non di rado lasciando una madre di famiglia alle prese con una ventina di schiavi. Nonostante l’ovvia fragilità di situazioni di questo gennere non si ha notizia di rivolte come quelle che negli anni Cinquanta avevano infiammato la Russia, rendendo scottante la questione della liberazione dei servi della gleba.
La personalità di John Forrest esprime le ironie e le contraddizioni dell’epoca. Nell’anteguerra aveva fatto i soldi con la tratta degli schiavi, ma si era presto convinto che la schiavitù era sbagliata. Quando per «difendere la patria» scese in campo alla guida di una divisione di cavalleria che operò nel Kentucky, i suoi schiavi lo seguirono per continuare a prestargli i servizi domestici. Forrest aveva promesso di liberarli tutti alla fine della guerra, ma pochi mesi prima della resa di Lee, vedendo la mala parata, li aveva radunati e aveva detto loro: «Io ho promesso di emanciparvi, ma le cose vanno male e potrei morire da un momento all’altro. Perciò lo faccio subito», procedendo quindi immediatamente a liberare i suoi schiavi. I quali continuarono peraltro a fargli fedelmente da domestici fino al momento della resa.
Anche il generale Lee fu assistito per tutta la durata delle ostilità dal suo domestico (ed ex schiavo) William Mack Lee. Dopo la fine delle ostilità Mack Lee divenne un predicatore e fece cassa per la sua chiesa presso vari ricchi confederati presentandosi come “Bobbie Lee’s nigger” (la parola “nigger” non era a quel tempo lo spregiativo che è oggi). Anche Forrest ebbe una metamorfosi. Con il ritorno del potere dell’Unione negli stati del Sud sciamarono dal Nord gli sfruttatori, che approfittarono dell’epurazione e spesso dell’ingenuità dei neo-cittadini neri per arricchirsi con rapidità. La reazione politica degli abitanti del Sud non si fece aspettare. Lo stesso Forrest fondò e diresse per qualche anno un’organizzazione di autodifesa destinata a fare molta strada, il Ku Klux Klan. Solo che agli inizi i suoi scopi non erano truci come divennero più tardi. Del Ku Klux Klan degli esordi fecero parte anche diversi neri.
Lincoln ci mise due anni prima di dare il suo assenso alla formazione di unità militari composte da neri e mulatti. Il battesimo del fuoco avvenne il 18 luglio 1863, quando il 54° Fanteria del Massachussetts prese d’assalto la piazzaforte confederata che si trovava all’ingresso del porto di Charleston. Il 54° fu respinto con la perdita del 40 per cento degli effettivi.
Il Congresso confederato dichiarò che l’uso di neri e mulatti come soldati era contrario alle tradizioni di guerra dei paesi civilizzati e decretò che gli ufficiali bianchi delle unità unioniste nere catturate dovessero essere messi a morte e che tutti i neri in uniforme dovessero essere considerati schiavi. I congressisti si erano già dimenticati che il primo reggimento di colore della guerra civile era stato formato in Louisiana dai neri liberi di New Orleans e si era battuto per qualche mese per la Confederazione prima di essere soverchiato, disarmato e ricostituito su richiesta dei suoi soldati nel quadro dell’esercito dell’Unione. Il reggimento aveva avuto fin dall’inizio ufficiali neri. Nell’Unione i neri erano invece comandati da ufficiali bianchi, e il loro soldo era inferiore a quello dei soldati meno abbronzati. Nell’ultimo mese di guerra la Confederazione ammise anche i neri nell’esercito, ma non ci fu il tempo di mettere in pratica fino in fondo l’innovazione. Però i neri erano sempre stati presenti nelle unità ausiliarie, che anzi erano composte quasi interamente da schiavi.
Prima e dopo il proclama di Lincoln, quando le truppe dell’Unione arrivavano in una città confederata era abituale che requisissero gli schiavi e li mettessero a lavorare per l’esercito. Agli inizi, comunque, ci fu più confusione. Si ha notizia anche di casi in cui soldati unionisti, imbattutisi in uno schiavo fuggiasco, lo portarono sotto la protezione della bandiera bianca fino alle linee confederate e lo riconsegnarono ai soldati in grigio, così come prescriveva uno dei tanti compromessi riguardo alla schiavitù adottati nel periodo precedente alla guerra e mai esplicitamente aboliti dopo l’inizio delle ostilità.
conclusioni
Come sempre succede, quando si va a guardare più da vicino un evento storico, la visione stilizzata che se ne poteva avere prima viene messa in discussione. La guerra fra l’Unione e la Confederazione non fu una lotta dei buoni contro i cattivi, ma lo scontro risolutivo fra due sistemi socioeconomici antagonisti. Non sappiamo che cosa sarebbe potuto accadere se fossero intervenute la Francia e l’Inghilterra, oppure se il Kentucky, considerato l’ago della bilancia, si fosse schierato con la Confederazione, riducendo forse in modo decisivo la disparità delle forze. Ovvero se la Confederazione non avesse atteso l’ultimo momento per emancipare gli schiavi; o ancora se prima di attaccare Fort Sumter avesse provveduto ad ammassare le riserve strategiche per quella guerra la cui inevitabilità si annunciava a chiari segni.
Nel territorio di Dixie gli americani sperimentarono un modo di intervento che avrebbero utilizzato in séguito in altri tre casi. Prima mossa, ricorrere alla devastazione su scala di massa per piegare la resistenza dell’avversario, senza badare alle perdite civili. Secondo, ottenere la resa senza condizioni. Terzo, ricostruire il sistema politico secondo i dettami americani. Quarto, aprire il paese conquistato all’attività economica americana. Nella Confederazione ha funzionato, in Germania e in Giappone anche. Per l’Iraq, secondo l’espressione americana, «la giuria è ancora fuori».
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