Anno 5 - N. 14/ 2006


Germi di un nuovo stile sono visibili già qui, nel ciclo della Passione del Galluzzo…

PONTORMO gli occhi dello spirito

Jacopo Carrucci, detto il Pontormo, si era formato presso la bottega di Andrea del Sarto, insieme ad un’altra grande personalità del Rinascimento e del Manierismo, Rosso Fiorentino. In lui, nessun senso di quiete, tutto è anelito, tensione emotiva, pathos, inquietudine

di di Gabriella Colletti



Pontomo (1532-35 ca.) AGNOLO BONZINO (1503-1572) Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli uffizi


Un monte di forma conica. Ai suoi piedi un borgo dal nome pittoresco: Galluzzo. Per questo il complesso architettonico si chiama Certosa del Galluzzo. Sorge a sud di Firenze, nella direzione che conduce a Siena. Dal basso verso l’alto un tripudio di cipressi fiammeggianti di verde nel verde nella bella stagione. Ora interamente coperti da un manto bianco. Così pure il paesaggio della collina. La neve scendeva copiosa dal cielo lattiginoso. Un unico colore avvolgeva quei luoghi nella gelida mattina d’inverno. Sul sentiero immacolato che conduce alla cima del monte le orme di chi, nelle precedenti ore del giorno, si era inerpicato nel gelo inospitale per ammirare la bellezza dell’arte. Nel piazzale qualche automobile, un camper dalla targa francese. Un gatto affondava le zampine nella coltre bianca con disappunto. Dei merli beccavano qualcosa in una pozzanghera. Un’allodola sui rami bassi di una betulla.

Un grande artista, amico del divino Michelangelo, lì aveva lasciato la sua impronta. Un pittore originario di Empoli che, a causa della peste che stringeva Firenze in una morsa di orrore e morte, si era rifugiato qui, sul monte Acuto, nella Certosa del Galluzzo. E per due anni, a contatto con l’umile vita di frati ed eremiti, era sfuggito al morbo e aveva approfondito la sua ricerca, meditando sulla lezione del maestro. Sulla monumentalità, innanzitutto, e sull’inquietudine che costituiva, forse, la situazione emotiva fondamentale delle due grandi identità. Jacopo Carrucci, detto il Pontormo, si era formato presso la bottega di Andrea del Sarto, insieme ad un’altra grande personalità del Rinascimento e del Manierismo, Rosso Fiorentino.

Nessuna ristrettezza di visione, nessun limite angusto soffocavano la mente e la produzione di questo straordinario pittore. In lui, nessun senso di quiete. Tutto è anelito. Tensione emotiva. Pathos. Inquietudine. Slancio mai appagato verso l’assoluto. Un’animata drammaturgia movimenta le scene, sia nelle opere di piccolo formato, che nei grandi affreschi. Come qui, al Galluzzo. Tra il 1523 e il 1525 Pontormo realizzava, per il chiostro dei monaci della Certosa, il ciclo della Passione: L’orazione nell’orto, Cristo davanti a Pilato, La salita al Calvario, La Deposizione e La Resurrezione. Il gelo, il vento, i raggi inclementi del sole nella canicola estiva, la pioggia avrebbero potuto guastare, con il trascorrere del tempo, la meravigliosa visione che, ora, al riparo nel primo salone della pinacoteca di Palazzo Acciaioli, rimane aperta allo sguardo di stupore degli spettatori. Realizzato il suo unico scopo: durare in eterno, come la sfinge, un astro, un tempio. Una parvenza di eternità nella promessa di ogni artista con la testimonianza della propria opera. Durare nella storia. Durata incrinata solo dall’angoscia, reale e non immaginaria per chi è venuto al mondo dopo Hiroshima, di una qualche funesta possibilità. Possibilità non così remota, purtroppo, di distruzione totale. Attraverso ciò che l’homo technologicus ha inventato per distruggere altri uomini, suoi fratelli: le bombe, le armi di distruzione di massa. L’atomica è solo preistoria in questo orribile excursus che ha al suo interno anche ogni opera d’arte della storia dell’umanità fino ad ora. Anche quella di Pontormo.

Nel 1527 la furia del sacco di Roma trascinava via, orrendamente, oltre alle vite umane, un’intera epoca. Si instillavano i germi del male, della paura, del brutto anche come categoria estetica. Distrutto per sempre il miracolo della bellezza, durato, in fondo, solo pochi decenni: il Rinascimento. L’inquietudine veniva da lontano. Dal nord. Come le orde dei barbari che avevano travolto l’impero romano più di un millennio prima. Corsi e ricorsi della storia di vichiana memoria. Dalle brume che in uno slancio straordinario e quasi sovraumano avevano innalzato al cielo, a Dio, le guglie e i pinnacoli delle cattedrali gotiche. Da una terra di gelo. Innanzitutto dal grande norimberghese, Dürer. Che Pontormo aveva ammirato e studiato nelle stampe che circolavano nella sua giovinezza a Firenze.

Dürer e Michelangelo, anime lacerate al loro interno da cocenti impulsi contrastanti. Coscienze che sapevano come, in fondo, l’uomo non possa occupare il centro dell’universo. Nonostante le sue mirabili conquiste. E la vertigine che emana da ogni forma di potere. La bellezza rimane un bene effimero. Manifestazione solo apparente di un modello, platonicamente imprigionato nel mondo delle idee della mente. Per ultimo, anche la creazione e la gioia struggente che da essa deriva altro non sono che inutilità. Una vertigine irraggiungibile per la pochezza dell’ingegno umano la creazione assoluta e l’assoluta verità. Essa riposa solo in Dio. Una fugace, soggettiva, sfocata intuizione può essere dell’uomo, in rari momenti di grazia, inspiegabili razionalmente. L’uomo, anche il genio, rimane creatura inferior. Non signore e dominatore dell’universo. Un insetto al cospetto del creato. Creatura davanti al suo creatore.

Volgono al tramonto i valori del Rinascimento. I germi di un nuovo stile sono visibili già qui, nel ciclo della Passione del Galluzzo. Nell’inquietudine che anima i corpi, colti in pose animate. Mossi intimamente da un dinamismo travolgente. E nella monumentalità. Come monumentali sono le figure delle incisioni di Durer: dal Cavaliere, la morte, il diavolo a Melancholia.
Sicuramente Bulgakov doveva avere presente l’affresco di Pontormo, Cristo davanti a Pilato, mentre scriveva il secondo capitolo del Maestro e Margherita.

Dalla terrazza sopraelevata, aperta ad un cielo azzurro pervinca, un giovinetto vestito da paggio discende una larga scalinata. In una mano sorregge un vassoio di portata. L’andatura è sicura e voluttuosa, il bel viso reclinato graziosamente di lato. E’ la figura più in alto della composizione. Si addice più a una festa che a una tragedia. Vi è stato inserito volutamente dall’autore, forse come elemento stridente all’interno del drammatico contesto. Nota dissonante, il paggio, con il primo atto del dramma che lì si consuma, a Gerusalemme, in una bella mattinata primaverile. Ai lati della scala, il colonnato coperto tra due ali del palazzo che già fu di Erode il grande, poi residenza del procuratore di Giudea, Ponzio Pilato. Lo spazio è assiepato di figure. Al centro il protagonista della tragedia. L’imputato indossa un chitone azzurro sbiadito e lacero. L’aria mesta, il viso dolcissimo, abbassato sul corpo lungo e magro. E’ legato come un pericoloso criminale. Le mani imprigionate dietro la schiena da stretti lacci che feriscono la pelle. A sinistra della composizione, seduto su uno scranno, il procuratore di Giudea. Il capo avvolto da un turbante bianco per proteggersi dal sole cocente. Leggermente più in alto di costui, due dignitari. Volti infidi e diffidenti. Gesti eloquenti di mani. Più in basso, come spettatori in prima fila di un dramma, due soldati da tergo introducono la scena. Interamente bianchi per l’usura del tempo. In realtà indossano pesanti armature che dovevano, in origine, lanciare bagliori metallici – come apprendiamo da una fedele riproduzione di Jacopo Ligozzi -. Impugnano poderose lance rinascimentali con una mano, con l’altra indicano Gesù. I soldati continuano, in un brulichio di rozzezza e ignoranza, sulla destra della composizione. Volti stralunati. La bocca aperta, non si sa se per uno sbadiglio o un’espressione di stupore. Il sommo sacerdote del Sinedrio indossa una veste che il tempo ci ha consegnato di un meraviglioso turchino pastello. Volge il volto, scopertamente falso, verso Pilato, con cui sta animatamente parlando, come testimoniano le mani dei due uomini che indicano il reietto legato che sta loro innanzi. Un personaggio, probabilmente un sacerdote del Sinedrio, ha il capo protetto da un turbante color bruciato. L’espressione losca, la barba aguzza. Punta l’indice con fare dispregiativo verso Gesù.

L’intero ciclo è pervaso dall’irrompere dell’ascetismo nell’arte di Pontormo. Costui abbandona lo stile bucolico, lussureggiante e naturalistico, di cui unica traccia è proprio la figurina del paggio in cima alla scalinata che scende verso il prigioniero. Una forza mistica dirompente scaturisce dall’opera. Questo il suo fascino intramontabile. E il misticismo non abbandonerà mai più l’artista fino alla sua morte. Necessaria alla sua ricerca l’esperienza presso i monaci certosini del Galluzzo. L’unica figura che emani dignità è quella di Cristo. Sugli altri volti sfilano, in una carrellata scenografica, i vizi e i difetti umani. Dalla diffidenza ostile al pettegolezzo dei dignitari, all’invidia livida dei sacerdoti, all’indifferenza beota dei soldati, pronti a eseguire qualsiasi ordine loro imposto dai superiori, senza alcun indizio di interpretazione critica degli eventi. E’ la stessa folla di “uomini buoni” di cui parla Jeshua nel romanzo di Bulgakov.
Gli stessi che rabbiosamente inciteranno il procuratore alla sua crocifissione.

Pontormo (1532-35 c.), Agnolo Bonzino, (Firenze, 1503 - 1572), Firenze, gabinetto disegni e
stampe degli Uffizi
La Veronica (1515), Pontormo (Empoli, 1494 - Firenze, 1556), Firenze, cappella del papa in Santa Maria Novella
Orazione all’orto, Ciclo della Passione e successive (1523-1525)
Cristo davanti a Pilato - La salita al Calvario - La Deposizione - La Resurrezione - Firenze, Certosa del Galluzzo
Rappresentazione di vita ospedaliera (1514), Firenze, Galleria dell’Accademia
Affresco rimosso nel 1856 dalla corsia delle donne dell’Ospedale S. Matteo
Ritratto di dama con cagnolo, Francoforte, Städelsches Kunstinstitut
Ritratto dell’alabardiere, Malibu, Paul Getty Museum