Anno 5 - N. 13/ 2006


Eros e passione nel canzoniere scespiriano

SHAKESPEARE IN LOVE: tra Mr. W.H. e la “Dark Lady”?

I sonetti come poesia lirica e confessione autobiografica, da segreta a pubblica

di Giulio Cesare Maggi




Nel 1597 William Shakespeare acquistava a Stratford-upon-Avon una casa, chiamata New Place, e vi si trasferiva con la famiglia. Si trattava di un vero e proprio complesso residenziale, con due granai, due giardini e due frutteti; dieci camini riscaldavano l’abitazione, certo la più bella della cittadina. Il poeta l’aveva comperata con i proventi delle azioni del Teatro Globe, di cui possedeva il 10%.
Qui si sarebbe ritirato verso la fine della vita, assieme alla moglie Anna e ad una delle due figlie, che mai si erano mosse di lí per seguirlo a Londra.
Le notizie circa gli ultimi anni di vita di Shakespeare – egli morì a 52 anni nel 1616 – sono relativamente scarse, anche per quanto riguarda le sue condizioni di salute. È tuttavia certo che fu attivo fino alla fine.
Ricorda Alessandro Serpieri come lo scrittore poco o nulla si curasse delle edizioni a stampa dei propri drammi, che circolavano in edizioni al più revisionate ad opera di attori della sua compagnia: si ricorderà come all’epoca, e ancora per oltre due secoli e mezzo, non esistevano diritti d’autore, ciò che consentiva agli editori la massima libertà nel pubblicare realizzando cospicui guadagni, specie nel caso, di autori di successo quale era Shakespeare.
Questa noncuranza dello scrittore, associata ai pochi scrupoli dell’editore, furono i motivi per i quali nel 1599 circolarono due sonetti, forse di mano di Shakespeare, nel The Passionate Pilgrim, che abusivamente portava sulla copertina il suo nome come se fosse tutto opera sua.
Anche il poeta Th. Heywood – come ricorda Alessandro Serpieri – aveva avuto la sorpresa di veder incluse nel The Passionate Pilgrim alcune sue poesie: testimonianza anche questa non ultima della scorrettezza di non pochi editori di quel torno di tempo.
Che tuttavia qualche voce fosse corsa sull’esistenza manoscritta di sonetti scespiriani si può arguire dal fatto che già nel 1598 Francis Meres nel suo Palladis Tamia parlasse di “sugared sonnets among his private friends”: perciò qualcosa si sapeva, gossip diremmo oggi.
In una seconda edizione (1612) del Pilgrim il nome di Shakespeare scomparve dal frontespizio dell’opera. Ma il fatto più spiacevole per il poeta fu che in questi due sonetti, ritenuti di sua mano, esplicitamente si dicesse: “Two loves I have” e uno di questi “is a Man right fait”, mentre l’altro è “a Women coulored ill”.
In realtà Shakespeare aveva scritto una serie di sonetti, di vago gusto petrarchesco, che, in forma manoscritta, erano a conoscenza di una ristretta cerchia di intimi del poeta. La notizia, dal piccolo gruppo di amici, diveniva di pubblico dominio e Shakespeare non era certo uno sconosciuto a Londra ed in Inghilterra.
La pubblicazione integrale dei Sonetti, in totale 154, avvenne nel 1609 motu proprio ad opera di un certo editore Th. Thorpes, il quale riuscì a procurarsi il testo completo in modo che non ci è dato sapere. Egli andò molto oltre nella sua scorrettezza, avendo l’ardire di dedicare l’opera al presunto “unico” ispiratore della stessa, con una dedica criptica a “Mr. W.H.”.
Il criptogramma ha dato luogo a ipotesi le più varie sull’identità dell’“ispiratore”, due delle quali sono ritenute dalla critica le più credibili. Una è quella del Conte di Southampton, già dedicatario dei due poemetti scespiriani di ispirazione ovidiana ricchi di spunti erotici Venere e Adone (1593) e Lo stupro di Lucrezia (1594), di nome Henry Wriothesley (H.W.) all’epoca ventenne.
Si trattava forse del “Master, Mistress of my passion. A women’s face, witch Nature’s own hand painted” (Son. 20 v.1). Di questi amorosi apprezzamenti fa fede il ritratto, attribuito a John de Critz, del Conte di Southampton che fino al 2002 era stato ritenuto di una donna, Lady Norton, forse per la presenza di un orecchino, gioiello fin da allora in uso anche per gli uomini.
Si è pensato anche a William Herbert (W.H.) Conte di Pembroke, bellissimo giovane diventato poi amante di Mary Fitton, damigella di Corte, che alcuni critici identificano nella “dark Lady” alla quale sono dedicati i sonetti dal 127 al 152. Il Pembroke fu certamente in rapporti culturali con Shakespeare.
Altra ipotesi fu avanzata da Oscar Wilde che pensò ad un giovane attore della compagnia del Globe. Ma è fin troppo evidente che, a parte il fatto che si trattò sicuramente di persona di elevato ceto sociale, il vero personaggio maschile, il destinatario del Canzoniere, è l’oggetto/soggetto di gran parte dell’opera. Risulterà sempre difficile, per non dire impossibile, prendere partito – dicono i critici più recenti – per un’opera in buona misura autobiografica piuttosto che per parto della fantasia.
Con molta ponderatezza Alessandro Serpieri dice: “Sembra preferibile una posizione meno radicale dell’una o dell’altra opzione” e in ogni caso “sarà sempre errato farne una storia a pieno titolo”.
Il genere erotico in Inghilterra aveva avuto i suoi autori più noti in Drayton e soprattutto in Barnfield, il cui poema Venus and Adonis (1594) aveva ispirato Marlove le cui opere erano a sfondo chiaramente omosessuale. Barnfield giustificò i propri versi facendo appello all’ispirazione ovidiana, citando i primi due versi della seconda Egloga, che così recitano:
“Formosum pastor Corydon ardebat Alexin,
delicia domini, nec quid speraret habebat”.
Del resto anche in numerose opere teatrali scespiriane, da Edoardo II a Romeo e Giulietta, tali spunti sono frequenti ed inequivocabili, ma su questo non è il caso di insistere.
Manipolazioni successive ed illegittime del testo poetico scespiriano condussero ad un’edizione (1640) nella quale i Sonetti venivano modificati al femminile, onde espungere “ogni traccia di possibile omosessualità”. Ma di questa non è facile sbarazzarsi o porla fuori gioco, a fronte di versi quali questi
“mi si descriva Adone, e il suo ritratto
è, di te, una povera imitazione”.
“E tu, in greca acconciatura sei dipinto
nuovamente,
e di questa bellezza,
divinata dagli antichi
a mo’ di profezia noi
abbiamo occhi per ammirare,
ma non lingue per lodare”.

La si chiami pure amicizia esclusiva e adorante, ma è difficile rifiutare del tutto per essa il termine di “love”.
È stato osservato a questo proposito che la parola “love” non necessariamente significa amore ma potrebbe indicare “amicizia privilegiata”, non tanto passione quanto profondo affetto, cosa che anche nella nostra lingua trova significato analogo.
Più nobile appare questo amour-passion del poeta nei riguardi dell’amico-ispiratore, visto alla luce dello stile platonico che il Rinascimento aveva diffuso nella cultura europea, laddove quello verso la “dark Lady” appare molto più carnale nell’animo e nei versi.
Si riteneva allora, seguendo i concetti platonici, che l’amicizia tra maschi fosse molto più nobile e razionale, tutta volta alla virtù, rispetto a quella eterosessuale, reale dominio dei sensi e perciò assai meno virtuosa. Asserisce Montaigne che, nella vita di un honnête homme, l’amicizia maschile gli assegna quel tocco di affettuosa dignità che manca al rapporto con la donna che, svolgendosi sul piano esclusivamente o prevalentemente fisico, gli conferisce un grado meno razionale, acceso come è di passione e perciò discosto dalla virtù e dalla spiritualità.
È quest’ultimo quel che sembra provare Shakespeare verso la “dark Lady”:
“My love is a fever, longing still
for what which longer nurshet the disease”.(Son.147, v.1-2)
ed invoca:
“My reason, the physician to my love”. (ib., v.5)
E si ritiene “incurabile”, per non seguire la sua ragione, che tuttavia gli fa considerare la bella donna “black as hell, as dark as night”. Non solo bruna, ma “nera come l’inferno, scura come la notte”.
E perché?
Forse perché essa lo distoglie dal pensiero dominante del desiderato quanto irraggiungibile – e quindi puro – efebo, il suo “Man right fait”.
Il quale, ad un certo momento, è concupito dalla “dark Lady”: un intreccio di infedeltà – almeno vissuta come tale – in un contesto forse solo “platonico” per quanto attiene al poeta e al giovane uomo. E allora verso la “dark Lady” c’è amore e odio al contempo.
Questo legame femminile appare come un ripiego (una punizione?) per un affetto che, forse, mai oltrepassò i limiti del lecito. Forse il Canzoniere fu solo un “diario poetico” autobiografico, un colloquio con il suo cuore. I Sonetti non furono mai conosciuti, prima della incauta pubblicazione non ad opera di Shakespeare, dall’uomo né dalla donna che ne furono i non svelati destinatari interni.
In una persona della finezza di Shakespeare si potrebbe anche pensare a quel sacrificio estremo dell’atto amoroso, nel quale – come sostiene il filosofo Jankéléwitch – la libertà non gioca alcun ruolo, ed il cui fondamento è il fatto naturale di per sé.
Da quale dei due sentimenti sarà stato condotto Shakespeare? Accanto a questo tipo di sentimenti, e ne costituisce il corollario inevitabile, sta la segretezza. Entrambi si fondono nel sacrificio volontario, non coatto, del quale il diario – i Sonetti – è rifugio e per certi versi consolazione segreta e straziante.
Un accurato studio di Stanley Wells (Looking for sex in Shakespeare, Cambridge University Press, 2004) porta alla conclusione che i Sonetti scespiriani non hanno in realtà una sequenza unificata, ma non sono neppure a sucessione casuale, essendo piuttosto caratterizzati da “minisequenze” nelle quali talora (Sonetti 135-136 e 143) si invoca il nome di “Will”.
Le controversie sulle datazioni e sulla consequenzialità dei Sonetti non ne stravolgono il significato poetico, né quello psicologico.
E in questo senso ci giova considerare il Canzoniere scespiriano verosimilmente come un continuum non casuale, ciascun sonetto avendo collegamenti, se non diacronici – poco o nulla qui ci interessa – sicuramente emotivi, comunque si voglia intendere il termine “love”.
Detto ciò, a ciascun sonetto va riconosciuta una compiutezza ed un’autonomia, non priva talora di attese o di collegamenti in un contesto pur sempre unito da un Io-lirico.
Non manca talora, accanto alle pene d’amore, l’accenno ad un senso di cupio dissolvi, di un richiamo alla morte.
“Thy thought is as death, which cannot choose
But weep to have that which it fears to lose”.
Il concetto di malattia e morte è non raramente ricorrente in alcuni sonetti.
E, se è difficile pensare per Shakespeare a rapporti fisici con il giovane ed altolocato amico – ma è altrettanto difficile escluderlo in assoluto – non cade dubbio che ciò sia avvenuto con la bruna dama.
E qualcuno si è posto il quesito se William Shakespeare fosse ammalato di sifilide. Nella già discretamente libertina Inghilterra, in particolare a Londra, il morbo gallico (malady of France) era assai diffuso.
A questo proposito, in un recente lavoro John J. Ross porta l’attenzione sulle frequenti citazioni fatte da Shakespeare sulla malattia (Enrico VI, Enrico V, Timone di Atene) e così pure in molte opere scespiriane si parli di pox, ma qui il significato, credo, è diverso e si riferisce genericamente a pustole similvaiolose o anche vaiolose.
Rileva Ross come nel sonetto 154 (v. 14) così si esprima il poeta:
“Love’s fire heats water, water cools not love”.
E Ross pensa ad una disuria da uretrite.
Egli ritiene sospetta la conoscenza di malattie sessualmente trasmesse in Shakespeare, non pensando che queste costituivano nel Cinque-Seicento una vera e propria piaga sociale per la loro diffusione e scarsa efficacia dei trattamenti.
Egli inferisce inoltre che il precoce ritiro dalle scene, in età ancor giovane, la sua alopecia, la firma tremolante apposta al suo testamento, tremore legato ad un (supposto) trattamento antiluetico mercuriale, giustifichino nel poeta, la presenza dell’infezione: di qui la sua morte precoce a soli 52 anni.
Dato che all’epoca di Shakespeare le sole terapie in uso per il trattamento della “malady of France” erano i mercuriali ed i bagni caldissimi, lo studioso americano fa riferimento al v. 11 del sonetto 153:
“I sick withall, the help of bath desired”
e questi bagni sono bollenti
“which yet men prove,
Against strange maladies as sovereign cure” (v. 7-8).
Per buona grazia, l’Autore americano, alla fine riconoscendo la lucidità mentale del Bardo, esclude le complicanze neurologiche della sifilide terziaria o l’intossicazione cronica da mercurio e pensa che Shakespeare sia morto per altra causa che non per la “malady of France”.
Dopo la diagnosi differenziale del Dott. Ross, facciamo ritorno ai due amori scespiriani, così sofferti, per cause diverse l’uno dall’altro, ma che il genio di Stratford aveva a lungo coltivato nel segreto dell’animo suo con sofferta passione.
Nessuno osi scagliare la prima pietra.
A lui e con lui viene desiderio di dire:
“Thy end is Truth’s and Beauty’s doom and date” (Son. 14, v.14).
“La tua fine è di Verità e Bellezza, condanna e termine”

Ritratto di William Shakespeare , attribuito a Gerard Soest (c.ca 1637-1681) dipinto durante il regno di Carlo II , collezione del Shakespeare Birthplace Trust, Stratford-upon-avon
The Globe Theatre (1599)
"Il Signore-Signora della mia passione". Il ritratto attribuito a John de Critz o alla sua bottega, del protettore di Shakespeare Henry Wriothetesley, Conte di Southampton giovinetto, fu ritenuto fino al 2002 un ritratto femminile, di Lady Norton.
Ritratto di Clara Fourment, Pieter Paul Rubens, Edward Peelman ltd., La “Dark Lady” non avrebbe potuto essere così?
Frontespizio della edizione completa dei Sonnets del 1609, “a cura di Thomas Thorpes, con la famosa dedica criptica “.
Ritratto di Mary Fitton (c.1595), George Gower, Londra, Royal Academy of Art
Ritratto di William Herbert.
Frontespizio del poemetto “Venus and Adonis”, pubblicato da William Shakespeare nel 1593 e dedicato al Conte di Southampton.