Anno 1 - N. 1 / 2002
MEMORIA DI PAESAGGIO NELLA VALLE DEL LAMBRO
LA MARCITA
Patrimonio della cultura contadina ed elemento peculiare
della sedimentazione storica
di Daniele Garnerone
Campagna a marcita ad ali doppie sul fondo della Cascina Decima, Lacchiarella, Milano
Sino a pochi anni fa, attraversando la Bassa milanese durante l’inverno, era facile scorgere ampie distese verdi in netto contrasto con la campagna a riposo, silenziosa, coperta di brina e di neve.
Quei prati umidi e ricchi di erbe smaglianti sono le marcite, una pratica agraria tipica del paesaggio della Bassa, storicamente associata alla grande cascina a corte e sintesi di un perfetto equilibrio idraulico ed agronomico. Superata come ordinamento colturale, da alcuni decenni la marcita è in fase di progressiva rarefazione ed è oggi quasi del tutto scomparsa dall’orizzonte agrario e paesaggistico italiano.
L’origine di questa pratica risale al Medioevo quando, dapprima per opera dei monaci Umiliati, fu introdotta nel 1200 nelle campagne dell’Abbazia di Viboldone, poi diffusa su vasta scala dai Cistercensi insediati a Chiaravalle, ai quali si attribuisce l’opera di bonifica delle terre della pianura ed il diboscamento delle selve.
Il principio dell’irrigazione termica è alla base della tenuta a marcita; l’apporto delle acque di fontanile –emergenti ad una tempe- ratura pressoché costante nell’anno di circa 10 gradi e condotte in proporzionata quantità a scorrere sulla superficie dei prati in modo da impedire il congelamento del terreno durante la stagione invernale – è fondamentale per garantire la continua crescita dell’erba ed una elevata produzione di foraggio, sino a dieci sfalci all’anno.
Dopo quasi nove secoli di eccezionale prosperità quale principale coltura nell’organizzazione dell’azienda agricola lombarda e dopo aver improntato di sé il paesaggio agrario della pianura irrigua, la marcita, la “regina” dei prati, è oggi quasi del tutto scomparsa, secondo un processo evolutivo determinato da condizioni economiche, sociali ed ambientali che hanno portato al mutamento della struttura aziendale e decretato conseguentemente l’abbandono di questa pratica.
Patrimonio della cultura contadina ed elemento peculiare della sedimentazione storica, la marcita è stata anche un segno evidente della “patria artificiale” individuata dal Cattaneo, che così scriveva: “Noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani; sicchè il botànico si lagna dell’agricultura, che trafigurò ogni vestigio della vegetazione primitiva. Abbiamo preso le aque dagli alvei profondi dei fiumi e dagli avvallamenti palustri, e le abbiamo diffuse sulle àride lande. La metà della nostra pianura, più di quattro mila chilòmetri, è dotata di irrigazione; e vi si dirama per canali artefatti un volume d’aqua che si valuta a più di trenta milioni di metri cùbici ogni giorno. Una parte del piano, per arte ch’è tutta nostra, verdeggia anche nel verno, quando all’intorno ogni cosa è neve e gelo” (1).
Nell’economia della Bassa milanese la marcita costituì un insostituibile supporto all’allevamento del bestiame per realizzare il perfetto equilibrio agricolo zootecnico dell’azienda, in un contesto territoriale nel quale il progetto, la messa in opera delle sistemazioni idrauliche e la costruzione dei campi secondo un preciso piano economico, sociale e paesaggistico potevano contare su una esperienza ininterrotta “ - se non dai tempi del virgiliano «claudite jam rivos, pueri, sat prata biberunt» - almeno dall’XI secolo. E’ già dal XIII secolo la menzione, in carte lombarde, del perfezionato sistema irriguo della «marcita»: che, con lo scorrimento sul prato di un leggero velo d’acqua durante l’inverno, impedisce il congelamento e l’arresto di ogni attività vegetativa, favorendo così tagli d’erba supplementari nella stagione del più difficile equilibrio foraggero” (2).
La dimensione territoriale della marcita è ben radicata nella pianura irrigua lombarda e, particolarmente, in quella milanese, nei cui solchi è sedimentata tutta la sua plurisecolare vicenda. In una guida del 1808, “Il forastiere di Milano” è così annotato: “Siccome la falda acquifera impregna il terreno fino a poche spanne dal suolo, l’intera zona [Corvetto, Rogoredo, Chiaravalle, il sud est della città di Milano ed, in specie, le zone attraversate dal fiume Lambro] costituì a lungo un susseguirsi di paludi e boscaglie. Poi i monaci cistercensi di Chiaravalle le bonificarono facendone una delle meglio coltivate d’Europa. Nacquero così le praterie artificiali dette volgarmente marcite, il che … non si vede in altre parti fuorchè nel Milanese” (3).
L’origine del nome marcita è incerta, soggetta a diverse interpretazioni volta a volta influenzate dalla preminenza di un elemento di valutazione sull’altro.
Scriveva nel 1811 l’avvocato Berra: “Chiamasi prato marcitorio o prato di marcita quel prato sul quale dall’autunno al principio della primavera scorre dolcemente una proporzionata quantità d’acqua, la quale bastando col proprio moto ad impedire la congelazione, e somministrando all’erba un continuo alimento fa sì che questa cresca rigogliosa in mezzo anche ai più forti freddi della vernata… Il nome di marcita debb’essere stato dato anticamente a cotali prati, se male non m’appongo, o perché in essi sin dal cominciamento loro si faceva marcire l’erba cresciuta dopo l’ultima falciatura ad uso d’ingrasso, il che si pratica da non pochi anche a’ dì nostri, o perché i prati non essendo allora agguagliati e ridotti come lo furono da coloro che dappoi succedettero, stagnando in essi l’acqua, avranno dovuto in alcuna parte impaludare, e conseguentemente, ne saranno marcite le radici”(4).
La pratica di far marcire l’ultimo sfalcio facendovi ristagnare l’acqua durante l’inverno, ottenendo l’effetto di “ingrassare” i prati, è di origini remota. L’aspetto di questi prati doveva essere “marcio” e paludoso, e dal loro stato potrebbe esserne derivato il nome. Le ricerche condotte attribuiscono alle comunità religiose l’opera di diffusione su larga scala della coltura della marcita, ed uno dei documenti più antichi che si conosca in proposito fa riferimento ai Benedettini di Morimondo. Si tratta di una pergamena datata 8 maggio 1188, circa mezzo secolo dopo l’arrivo dei monaci nella valle del Ticino; vi è descritto il passaggio di proprietà dal Comune di Ozzero ai monaci di un terreno “ad lucum ubi dicitur marcitis”, «presso il bosco detto marcita»(5). Da mappe raccolte presso il Regio Demanio risultano campagne a marcita nei poderi dei monaci di Chiaravalle, che già nel 1400 possedevano beni fuori Porta Romana, nel Carpianese. Anche i monaci Umiliati di Viboldone ebbero un ruolo importante nel-l’opera di messa a coltura delle marcite, utilizzando sin dal 1200 la Vettabia per adacquare i prati. La diffusione delle colture foraggere perenni si sviluppò soprattutto a partire dal Rinascimento, grazie al nuovo impulso alle opere di bonifica ed irrigazione.
Tra la fine del XV secolo e la prima metà del XVI, quelle stesse opere –finalizzate non solo alla preparazione delle campagne, ma anche a riorganizzare il territorio a partire dalla sistemazione dei fiumi, dei canali e dei fossi irrigui –vennero rapidamente estendendosi grazie alla politica di promozione agricola intrapresa dai Comuni e dalle Signorie, particolarmente dagli Sforza e da Ludovico il Moro.
La marcita si venne estendendo dal Settecento a tutta l’area delle risorgive, allargandosi anche ad altre provincie della pianura lombarda e piemontese, ma la terra d’elezione continuò ad essere il milanese. Già nel 1726, nei territori dei Corpi Santi di Milano, erano tenute a marcita oltre 6.000 pertiche di campagna, quasi 400 ha. In questo momento storico, al centro del processo di riorganizzazione del paesaggio agrario della pianura irrigua è la cascina, caposaldo territoriale e centro produttivo dell’azienda agricola che, a partire dalla seconda metà del Settecento e più intensamente per tutto l’Ottocento, si strutturò rinnovando le forme del paesaggio, i limiti dei poderi, delle proprietà ed i rapporti di produzione. Agli inizi del Novecento la marcita occupava in Italia circa 24.500 ha, la maggioranza dei quali concentrati nella Provincia di Milano (11.810 ha, pari al 48% del totale) e di Pavia (7.464 ha, pari al 30%); superfici inferiori nelle campagne delle Provincie di Brescia (6,5%), di Novara (6,4%), di Cremona (5,1%), di Bergamo (1,7%), di Udine (0,5%), di Perugia (0,3%), di L’Aquila, Mantova e Roma (0,1%)(6).
Con la sua progressiva diffusione si affermò una sistemazione in particolare, detta a ripiglio; si tratta di una tecnica alla quale si giunse attraverso successivi adattamenti dei più semplici sistemi di irrigazione. Due sono i metodi di organizzazione: la marcita in piano e la marcita ad ali, quest’ultimo tipo distinto in tre varianti che, con caratteristiche proprie, danno luogo ad impianti idraulici particolarmente complessi. Un paesaggio agrario che assume specifiche valenze di architettura, simbolicamente rappresentate anche dalla assunzione di termini mutuati dalla organizzazione dello spazio abitato: quartieri sono appunto detti gli appezzamenti raggruppati e quadri i singoli campi.
La marcita in piano, detta a sguazzo, è il si-stema più antico e semplice, diffuso sui terreni piatti con lievi pendenze e sui pendii delle vallate fluviali. Nel punto più elevato, una piccola roggia a fondo chiuso prende acqua dal cavo irriguo principale e la distribuisce sul prato; l’acqua non assorbita è raccolta al livello inferiore da una roggetta intermedia e da questa di-stribuita sul piano sottostante. Dopo aver percolato su piani diversi, l’acqua infine è raccolta da un cavo colatore che la conduce su altre campagne.
Questo metodo è stato progressivamente sostituito dall’impianto della marcita ad ali, rimanendo nella forma di un’unica ed estesa ala – alone – in alcuni ambiti fluviali del Ticino e del Lambro; in particolare, lungo il corso del Lambro era presente ancora sul finire degli anni Ottanta a Santa Brera e a Rocca Brivio (San Giuliano Milanese), di bordo al Colatore Addetta (Colturano), alla Cascina Folla (Pieve Emanuele) e a Moro di Locate (Locate Triulzi), lungo il bordo fluviale.
Le marcite ad ali sono nel tempo divenute assolutamente predominanti sul modello in piano, dal quale si differenziano per la giacitura del terreno e per la modalità con cui l’acqua viene condotta e distribuita sulla cotica erbosa, caratteristiche riconducibili a tre tipi: la marcita a maschio e femmina, la marcita a zig-zag e la marcita a ripiglio, quest’ultima – la più diffusa – esaminata in questa sede.
La marcita a ripiglio è costituita da un insieme di appezzamenti collegati e indipendenti fra loro (quartieri), ciascuno dei quali è suddiviso longitudinalmente da una serie di ali a doppio spiovente, con pendenza molto contenuta. Nel punto più elevato della campagna la roggia adacquatrice conduce l’acqua sulle ali attraverso la roggetta a fondo chiuso detta maestro, tracciata lungo la linea di colmo delle ali, di modo che l’acqua discendendo sia raccolta ai lati da roggette dette coli. Da queste è poi condotta in una roggia maggiore, intermedia tra un quartiere e l’altro, la quale assume il ruolo di adacquatrice della marcita immediatamente a valle. Il primo quartiere di marcita a ripiglio, il più elevato sulla campagna, è dunque irrigato direttamente dalla roggia principale, mentre i successivi, a valle, ricevono le colature dei quadri a livello superiore, alle quali sono aggiunte masse d’acqua più o meno consistenti a seconda della necessità.
La perfezione di questa sistemazione è raggiunta con la costruzione di un cavo di fuga, cioè di una roggia di dimensioni adeguate aperta a lato o al centro dell’appezzamento e collegata con le rogge adacquatrici intermedie. Su ogni quartiere scorre così solo la quantità d’acqua necessaria al mantenimento dello stato vegetativo della cotica erbosa, mentre gli stessi, collegati ma indipendenti, possono essere volta a volta disimpegnati all’irrigazione in parte o in totalità, senza compromettere la sommersione dei quadri irrigati. Ciò si rivela molto importante quando, durante l’inverno, si rende necessaria l’asciutta di un certo numero di ali pronte allo sfalcio, a fronte di altre sulle quali l’irrigazione jemale non deve essere interrotta.
Fra le aree a marcita a ripiglio, le concentrazioni maggiori – ma si tratta comunque di poche campagne – si possono oggi vedere a Castello di Buccinasco, alla Cascina Decima di Lacchiarella, a Tavernasco di Noviglio, a Cassinetta di Settala.
Un tempo molto diffusa nella Bassa irrigua ed oggi limitata a poche zone del milanese e del pavese, eccezionalmente la marcita è stata presente anche in un contesto del tutto differente qual’è quello della Brianza; è un caso limite – per questo ancora più significativo – quello che vede un appezzamento di marcite a sguazzo e ad ali sui primi rilievi collinari della Valassina, nel Comune di Ponte Lambro. La strada fiancheggia dall’alto una distesa di prati a marcita, oggi solo marginalmente irrigati anche in inverno, definendo un paesaggio che, già caratterizzato dalla morfologia ondulata a terrazze del luogo e da vecchi opifici, assume una connotazione singolare e di grande pregio. Qui la persistenza dei caratteri del paesaggio agrario storico ha in sé valenze da valorizzare e conservare.
Il significato è esaltato dalla necessità di sfruttare le risorse a disposizione e, fra queste, primariamente l’acqua, secondo modalità che sono il portato di un’opera secolare di trasformazione dello stato naturale.
Con la progressiva diffusione della marcita nei secoli scorsi ampie superfici furono organizzate utilizzando diverse soluzioni, sia per l’accidentalità dei luoghi, sia per la diffusa presenza d’acqua che, per il migliore governo, venne captata e condotta attraversi diversi iti-nerari. Ciò non sfuggì all’attenzione del Soresi: “Mirabili esempi di queste marcite a forma multipla li abbiamo nei territori accidentati, come sono quelli lungo il corso del Lambro Meridionale e del Lambro Settentrionale nelle vicinanze di Milano. Ivi le marcite occupano terreni aventi ogni sorta di accidentalità, eppure l’acqua viene condotta per ogni dove a scorrere in leggero velo, con mera-vigliosa regolarità”(7).
Il Lambro costituisce una realtà imprescindibile per l’economia agricola del territorio ad est di Milano, dall’altopiano asciutto alla zona intermedia attorno a Monza, alla grande dimensione in senso spaziale e strutturale della Bassa.
Da questa individuazione territoriale è possibile partire per formulare alcune conside-razioni in ordine al ruolo del fiume per la costi- tuzione di un paesaggio della marcita, e sulla amplissima diffusione della pratica nelle campagne di tutto il bacino meridionale del fiume, già a partire da Monza, attraverso Milano, Lambrate e Peschiera Borromeo, poi più giù, nel “cuore umido e grasso” della Bassa, tra San Donato M., San Giuliano M. e Melegnano.
Già dal medio corso del Lambro a sud di Monza, dove affiorano le risorgive, a partire dal Settecento e, particolarmente nel corso dell’Ottocento, prende sempre più importanza la tenuta a marcita dei prati, pratica favorita anche dalla morfologia stessa della valle del fiume, il cui corso sinuoso a meandri attraversa il territorio in un letto poco incassato sul piano di campagna e, approfondendosi tra zone boschive ed acquitrini, ridistribuisce gli apporti dei numerosi fontanili.
L’abbondante affioramento delle risorgive ha consentito altresì di contenere le dise-conomie derivanti dal regime incostante del fiume. Lì, nelle campagne ricche d’acque già bonificate e trasformate in fertile terra dal Medioevo, la marcita raggiunse livelli massimi di espansione, connotando di sé il paesaggio agrario con vaste e regolari estensioni senza soluzione di continuità nelle campagne di San Donato e San Giuliano Milanese, bagnate oltre che dal Lambro, anche dalla Vettabia e dal Redefossi.
Sin da tempi antichi le acque del Lambro sono state utilizzate per irrigare le campagne a levante di Milano. Un documento del 1180, il più antico che oggi si conosca, è in questo senso di importanza notevole rispetto al ruolo che il fiume ha avuto nella costituzione del paesaggio della marcita. Si tratta di una pergamena nella quale è nominata la Chiesa di Sant’Ambrogio all’Ortica, antico borgo amministrativamente autonomo sino al 1923, poi annesso e “assorbito” progressivamente dall’espansione di Milano. In esso sono indicate le campagne di Cavriano, fra le quali la località prato marcido che, in modo paradigmatico, rimanda alla pratica di far marcire i prati con l’irrigazione jemale.
Dal documento si apprende che Anselmo di Rho, diacono di Santa Maria Jemale, consegna come provvidenza per il suffragio della propria anima 16 lire e mezza a Zulfus Formentus, cano-nico di Santa Tecla; i danari sono impiegati per acquistare un prato di 11 pertiche “iacente ibi ubi dicitur in Prato Marcido” (8).
Nel Comune di Lambrate, all’inizio del Novecento, le campagne a marcita coprono 200 ettari, il 23% della superficie agraria utilizzata. Tra il 1910 ed il 1915, nel bacino irriguo del Lambro, esteso su circa 53.000 ha, la pratica della marcita è diffusa su quasi 2.000 ha, con livelli massimi a San Donato – 174 ha, 25% della S.A.U. – e San Giuliano, 557 ha pari al 20,5% della S.A.U. I decenni successivi registrano un ulteriore incremento sino agli anni 50, con 2.200 ettari circa, a fronte di una superficie complessiva per la Provincia di Milano pari a 9.700 ha.
Da quel momento in tutta l’area di diffusione della marcita si avvia l’inversione di tendenza che, dapprima con lenta progressione, porterà alla sua quasi totale sostituzione con seminativi nei contesti agrari più forti, al prato stabile o all’incolto nelle frange e nei margini di campagna residuali all’edificato.
Nella Valle del Lambro la dinamica evolutiva non è diversa. Certo è che l’inquinamento del fiume, in un territorio intensamente urbanizzato e soggetto sino a pochi anni fa al progressivo abbassamento degli “aves”, con il conseguente prosciugamento dei fontanili, ha concorso in modo notevole alla diseconomia della marcita, dovuta alla ridotta produzione di fo-raggi o, nei casi più gravi, alla perdita di alcuni sfalci perché l’erba risultava “bruciata” dalla continua sommersione a contatto con sostanze venefiche.
A fronte dell’abbandono della pratica negli ultimi decenni, e pur in presenza di acque inquinate, la Valle del Lambro ha mantenuto più a lungo un ruolo significativo rispetto al dato provinciale; nella stagione invernale 1986/’87, sono censite marcite su 2115 pertiche, poco più di 138 ettari su un totale provinciale di 695 ettari relativo ai Comuni del Comprensorio Milanese. Per citare soltanto alcuni dati, San Giuliano Milanese con 137 ettari di marcita (5,44 % della S.A.U.) risulta essere il Comune con il maggior valore di superficie in assoluto, con concentrazioni di rilievo per quantità e si-gnificato storico ambientale alla Cascina Carlotta 301 p.m. ( pertica milanese 654.51 mq . n.d.r.) e a Santa Brera (222 p.m.); tra Rocca Brivio e Colturano sono presenti 232 pertiche di marcita “a sguazzo” sulla sponda sinistra del fiume. Alle località Caccialocchia, La Folla (San Giuliano Milanese) e Cascina Resica e Regaina (Mediglia) sono distribuite 200 pertiche di marcita, sia in sponda destra che sinistra.
Più a nord, tra Ponte Lambro (Milano), Linate e Cascina Boscana (Peschiera Borromeo) altre 235 pertiche, la metà delle quali distribuite lungo la sponda sinistra. Nell’area di riferimento, la presenza più a settentrione è registrata al limite della pianura irrigua, a Sesto San Giovanni; qui il continuum edificato che lega la città ai comuni vicini si è allargato a dismisura sino a raggiungere il 95% della superficie territoriale. Una preziosa valenza la presenza di una campagna a marcita di classe unica estesa su 130 pertiche del fondo della Cascina Parpagliona e localizzata all’interno di un meandro del Lambro (9).
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