Anno 4 - N. 12/ 2005
Una guida turistica della Milano del duecento
IL DE MAGNALIBUS URBIS MEDIOLANI
"ho composto questo opuscolo dopo aver con grande diligenza e molta fatica investigata deliberatamente la verità delle cose, in modo da convincere agevolmente senza fatica i lettori, senza che alcuno intervenisse a pregarmi..."
di Giulio Cesare Maggi
Biscione visconteo
(frammento di decorazione affrescata nel castello di Pavia)
Composto tra il 1288 e l'inizio del 1289, il più famoso scritto di Bonvesin da la Riva, il De Magnalibus urbis Mediolani, del quale si conoscevano solo poche citazioni nel Chronicon maius di Galvano Fiamma, fu scoperto dal filologo milanese Francesco Novati nel 1885 nella Biblioteca Nacionál di Madrid. Tre anni dopo Novati pubblicò in trascrizione il manoscritto, corredandolo di un ampio apparato critico, nel Bullettino dell'Istituto Storico Italiano. Gli scarsi lacerti riportati dal Fiamma, che avevano reso assai critico Pietro Verri, nella sua Storia di Milano nei riguardi di Bonvesin, trovavano così il loro inquadramento nel testo completo del De Magnalibus al quale la pubblicazione del Novati rendeva giustizia.
La prima traduzione dell'interessante libretto si ebbe nel 1921 ad opera del noto studioso di cose milanesi Ettore Verga, mentre due successive edizioni con testo a fronte furono presentate da Angelo Paredi (1967) e da Giuseppe Pontiggia (1974). Queste edizioni più recenti hanno riportato l'attenzione anche del grande pubblico sulla figura del più significativo poeta e scrittore del Duecento lombardo, al quale Milano si era limitata, in anni passati, ad intitolare una via, resa poi celebre per motivi non letterari ma gastronomici.
Di Bonvesin restano poche notizie biografiche, che sono riportate nel riquadro ad esse dedicato.
Bonvesin vive ed insegna a Milano, ove per molti anni è magister di grammatica. Di Milano egli comprende gli umori e la quotidianità, con occhio sufficientemente distaccato ed obiettivo, anche se spesso con enfasi trionfalistica. Della città dove vive è innamorato ed orgoglioso di esserne cittadino.
Il De Magnalibus appartiene a quel genere medioevistico detto "Laudes Civitatum", che tra realtà ed euristica, tende a considerare la propria città come umbilicus mundi, visto nelle sue componenti di vita urbana e di strutture architettoniche, iniziando dalle mura, come si vede in molta pittura, specialmente toscana, coeva.
Si ricorderà il Versum de Mediolano Civitate di epoca liutprandinea, sul quale pone l'attenzione Alba Maria Orselli (da ultimo 1993). Rispetto al quale il De Magnalibus è "ormai sigillo di riqualificazione urbica per le presenti onorevoli pratiche di una vita che ora si connota come indissolubilmente urbana e cristiana".
La dignità e la nobiltà di Milano deve rallegrare tutti gli amici della stessa e convertire gli invidiosi, attirando gli stranieri. I concittadini poi, considerando di quale patria siano figli "non degenerino in alcun modo da tale nobiltà né con un governo disonorevole, mácchino e diffamino la loro patria".
Una finalità quindi anche moraleggiante e, alla fine, un invito al buon governo. Già la forma della città, perfettamente rotonda, "orbicolaris", ne simboleggia la perfezione.
Milano allora, sotto la Signoria dell'Arcivescovo Ottone Visconti, disponeva di 200.000 uomini in grado di prendere le armi: a questi si debbono aggiungere oltre 10.000 religiosi di canonicati, chiese e conventi "che vivono di pane ambrosiano".
La città, tutta circondata da un fossato di grande bellezza, aveva sei porte principali e numerose porte secondarie dette pusterle, alcune delle quali ancora oggi esistenti. Oltre 12.500 erano le porte a battenti, il che significa altrettante case o palazzi che davano sulle pubbliche vie, abitati questi da più famiglie, spesso con numerosa servitù.
Chi si guardi intorno "non tamen similem delitiarum reperiet paradisum". Non esiste al mondo, dice Bonvesin, città che possa starle a paragone. Gli abitanti poi vivono con decoro, ordine, larghezza e dignità.
La salubrità dei luoghi, ma anche questa bella disposizione dell'animo che procede da siffatto modo di vivere, fanno sí che vi si trovino numerosissimi uomini e donne che ivi vivono fino ad età decrepita. Ciò spiega anche "la fecondità delle famiglie e la densità della popolazione nella prosperità di ogni bene, ogni giorno, per grazia di Dio, mirabilmente in aumento".
Il numero totale dei cittadini, era certamente superiore a quello delle due cifre sopra riportate, alle quali mancano donne e bambini. E allora quanti sono in totale gli abitanti di Milano? si chiede Bonvesin e risponde: "silentium: qui potest capere capit".
Ma ci dice, credendo di essere nel vero, che nella terra ambrosiana, comprendente perciò tutto il territorio, vi sono almeno settecentomila bocche umane, compresi i bambini. E queste bocche bisognerà pure sfamarle!
Il denaro non manca in questo centro manifatturiero e mercantile che è la Milano del Duecento: in tutte le fiere d'Europa, da Vienne a Lione, dalla Borgogna alle Fiandre e persino a Londra i Lombardi vendono e comprano e guadagnano, e lo faranno per secoli.
E qui inizia l'elogio di Milano per la fertilità del suo suolo e la sovrabbondanza di ogni bene.
A questo aspetto è dedicato il quarto degli otto capitoli di cui si compone il De Magnalibus.
È uno spaccato di grande interesse che ci consente altresì un paragone con i tempi attuali, non meno di quanto consentano gli aspetti storici o celebrativi, pure, per altri versi, interessanti.
Ricchi come sono di acque sorgive e di fiumi, i territori della felice Lombardia producono in grande abbondanza ogni sorta di granaglie, grano, segale, miglio, panìco e qualsiasi specie di legumi da cuocere, quali fave, ceci, fagioli, cicerchie e lenticchie, tanto da essere esportati oltralpe. Né mancano certo rape e cavoli navoni o ravizzoni che Bonvesin considera cibo invernale utile a ricchi e poveri.
Eccellenti frutti producono, e in grande abbondanza, i verdeggianti frutteti, come pure gli orti e le vigne che regalano "humano gustui boni saporis iocunditatem".
E per queste coltivazioni si impiegano oltre trentamila paia di buoi da lavoro.
Si producono inoltre ciliege aspre (visciole) e dolci di diverse varietà e in tale abbondanza che in stagione ne possono entrare in città ogni giorno oltre sessanta carri agricoli. Lo stesso vale per le prugne bianche, rossicce, gialle, damaschine, da giugno ad ottobre, in quantità illimitata, mele estive, pere, fichi, fichi fioroni e more. Subito dopo si raccolgono le nocciole e le corniole.
Quest'ultimo frutto, secondo Bonvesin, è più adatto alle donne. Fa notare Pontiggia, per averlo ricavato da un articolo di F. Novati su poesie del XIV secolo, che ad esse si attribuivano proprietà astringenti a livello intestinale (lo fluxo del corpo senza infenzere tostamente eio [eio = ego] lo fo astrenzere).
Sovrabbondanza v'è di fichi, giuggiole, pesche nonché di uve di varia qualità.
Meno generosa è la natura del suolo per quanto riguarda le mandorle, mentre le noci sono abbondantissime, e per molti costituiscono un dessert alla fine di ogni pasto e per tutto il corso dell'anno. Triturate ed impastate con cacio, uova e pepe costituiscono un eccellente ripieno per le carni nella stagione invernale. Dalle noci si ricava un olio che in Lombardia è largamente impiegato e lo fu fino ai primi anni del Novecento quando iniziò in Alta Italia l'uso dell'olio di oliva.
Per tutto l'inverno vi è poi disponibilità di pere e mele come pure di cotogni.
Vi sono anche i frutti del melograno, adatti agli ammalati, ai quali restituiscono appetito, togliendo l'eccesso di "calore".
A questo proposito si può osservare che nel Theatrum Sanitatis magistri Ububchasym (codice Casanatense 4182) dal quale sono tratte alcune delle miniature che illustrano il testo, sono descritte due varietà di mela granata, la granata dulcia e la granata acetosa, che essendo una di natura calda e l'altra di natura acida, vanno consumate insieme onde evitare "inflazione di umori".
Immensa la produzione delle castagne dette "marrona" (marroni) nelle loro qualità migliori, disponibili tutto l'anno e largamente esportate. Cotte sul fuoco si possono mangiare alla fine del pasto in luogo dei datteri che essendo importati sono costosi e perciò riservati alle mense dei benestanti. Forse per consolare gli altri, Bonvesin specifica "a mio giudizio hanno un sapore migliore di quello dei datteri". Si possono cucinare in vario modo, anche a zuppa e perciò senza guscio "cum cochlearibus", certo le prime posate ad essere introdotte sulla mensa. Le castagne possono tenere luogo del pane: questa abitudine alimentare in Lombardia fu presente fino alla fine dell'Ottocento e oltre.
A novembre sono assai abbondanti le nespole: dice il nostro Theatrum Sanitatis che esse sono di natura fredda, efficaci nel prevenire l'ubriachezza. Se ingerite in eccesso procurano dolore allo stomaco che può essere combattuto con lo zucchero raffinato detto anche "penidijs".
La nespola è invisa ai "giocatori spogliati dai dadi": è pure detta "nimica de ribaldi". Non è ben chiaro il significato dell'affermazione, anche se in qualche parte si legge che "essa si trova d'inverno quando lo richo gode", perché vicino al fuoco, al calduccio o perché gusta la cacciagione alla sua mensa o perché si riposa dalle fatiche dei viaggi mercantili. Difficile dirlo.
Anche le bacche di olivo e di lauro, invero assai scarse, vengono raccolte in qualche zona della Lombardia: queste ultime, cotte nel vino, costituiscono una efficace pozione contro il mal di ventre.
Non si producono invece, richiedendo climi torridi, né datteri né pepe né tutte le altre spezie d'oltremare, così necessarie alla cucina medioevale.
Dagli orti, che li forniscono per tutto l'arco dell'anno, si ottengono legumi di ogni specie: ogni varietà di cavoli, bietole e lattughe atriplici (il bietolone), sedano, spinaci, prezzemolo, finocchi, aneto, cerfoglio, anice, nepitella, zucche di ogni varietà, aglio, porri, pastinache (le carote), alfaneia, il cui nome è di certa derivazione araba (come l'alfaalfa o erba medica), ma di quella non si trova riscontro certo, forse una specie di radice simile alla pastinaca, con la cui radice si ottiene "un ottimo e sano composto".
Ancora gli orti danno la borragine, pure oggi in uso nella cucina specie ligure e poi senape, zafferano, liquirizia, erba citrina o citronella.
Segue un elenco di erbe medicinali e non, dall'issopo al basilico, dalla malva al papavero, alla salvia, alla menta, alla santoreggia, che costituiscono un vero e proprio "giardino dei semplici", così caro alla cultura medica dell'Età di mezzo.
Vi sono ancora molti fiori profumati, ornamento della casa e gioia dei sensi (ci viene in mente le Jardin des cinq sens di Ivoire), alcuni dei quali, ad esempio la tuberosa, non privi di virtù terapeutiche, come infusioni in vino e decotti. Ma ancora rose di ogni varietà e gli astri, chiamati occhi di Cristo nome che, come fa notare Pontiggia, conservano anche oggi nella lingua francese. Se i sensi dell'uomo sono rallegrati dai fiori, in particolare vista ed odorato, le fragole rallegrano il gusto.
L'ottimo ed abbondante fieno prodotto dalle marcite, allora largamente utilizzate, assieme ad orzo, rape ed altri vegetali, consentivano un allevamento senza limiti di quadrupedi, in particolare quelli da carne, sicché di questa vi era grande disponibilità.
Né mancherà certo il vino per accompagnare le carni, dato che le vigne sono ricche: e ve ne sono di dolci e di aspri. Non ci sentiremmo di dire che fossero vini di grande qualità, probabilmente solo di pronta beva, dato che allora si vinificava in modo improprio.
Bonvesin ne descrive bianchi, di colore dorato, e rossi tutti sapidi e salutari: il consumo era sicuramente elevato se in città entravano, nel corso dell'anno, seicentomila carri di vino.
Si comprende così come "si ubriacano i nostri beoni", i quali non erano certo lo specchio di civiche virtù, tra le quali la temperanza. V'è da pensare tuttavia che quei vini fossero di gradazione alcolica piuttosto bassa e che l'elevato consumo di carne proteggeva il fegato dei buoni Milanesi, che del resto, secondo quanto dice Bonvesin nel capitolo primo del De Magnalibus, erano longevi.
Ci vengono da Bonvesin alcune notizie significative circa la coltivazione della vite, di solito a spalliera, utilizzando come appoggio gli alberi da frutta, con recupero della legna da ardere a seguito della potatura. Ogni buongustaio sa che i sarmenti di vite sono i più adatti ad una gustosa cottura delle carni alla graticola. Sotto questi spazi di coltivazione della vite resta terreno libero e solatio per seminare cereali: una vera economia integrata.
Dalle selve e dai boschi della Lombardia si ottiene legname duro da opera e l'indispensabile legna da ardere ed in questo senso la regione è del tutto indipendente: nella sola città se ne brucia in un anno la incredibile quantità di centocinquantamila carri.
Si inserisce a questo punto della esposizione di Bonvesin un curioso pasticcio che parla di olio, di tovaglie e di cose strane all'apparenza. Il tutto è rimasto inspiegato ed inspiegabile al Novati, ma Pontiggia è riuscito a scovare nell'Archivio Storico Lombardo una nota di L. Negri (1927) nella quale si spiega trattarsi dell'olio di linosa molto usato in cucina nella Lombardia dei Duecento e poi di tovaglie tessute di lino: il tutto "per la buona fama di Bonvesin da Riva ...". Il quale, da buon maestro di grammatica, secondo la opinione di Pontiggia, usò questo topos anfibologico solatii gratia, cioè per "far tirare il fiato" al lettore sommerso da tante mirabilia.
Il consumo delle carni, sulla base di un'indagine sui macelli di città, nei giorni nei quali ai Cristiani era consentito mangiarne, è di sessanta buoi. Per non parlare di agnelli, capretti, maiali, pecore e selvaggina, tanto numerosi da rinunciare a farne il calcolo: sarebbe come contare le foglie di un albero o i fili d'erba. Non parliamo di bipedi domestici e selvatici, compresi i pavoni ed altri uccelli dal becco gentile.
I buoni Milanesi non si fanno certo mancare burro, latte e latticini vari, dalle giuncate al cacio, e neppure il miele.
Ed infine i gamberi dei fossati: dalla Quaresima a San Martino se ne consumano quotidianamente per sette moggi e cioè cinquecento chilogrammi. La figura del "venditore di gamberi", dei quali erano ricchi allora i nostri fossati non inquinati da sostanza chimiche, è rimasta nella tradizione anche vernacolare ed iconografica milanese fino all'Ottocento. Li cita anche il Maggi nel "Barone di Birbanza" (I, vv 758-759): "... 'l Fiittabil ghe portava
Quasi ogni mes un cavagnol de ganber".
Laghi e fiumi della Lombardia fornivano poi ogni varietà di pesce d'acqua dolce in notevole quantità.
Assai utili questi numerosi corsi d'acqua per muovere oltre novecento mulini, per un totale di tremila ruote, che assicurano pane agli Ambrosiani.
Il pesce di mare arriva a Milano da luoghi lontani (oltramontani) in salamoia. Parimenti i mercanti importano sale, pepe e spezie che rendono piacevole ciò che al corpo è utile. Sul sale si paga un dazio alle porte della città e perciò sappiamo esattamente la quantità impiegata annualmente, pari a cinquecentomila ottocento trenta staia.
Con un'alimentazione così sana e variata i bambini crescono bene: "risulta altrettanto evidente qui che, a meno che si sia una nullità (nisi sit nihil), ogni uomo, purché sia sano, può ottenere guadagni e dignità secondo il proprio stato".
Né a questa terra, accanto ai beni materiali, mancano quelli spirituali abbondantemente elargiti dall'Onnipotente.
In Milano si tengono quattro fiere-mercato l'anno. La più importante è quella di San Bartolomeo, durante la quale si tagliano per la prima volta i capelli a bambini e bambine: di qui, come è noto agli Ambrosiani, il termine di "tosa" per indicare la giovane non maritata, dal latino tardo tonsus e tonsa equivalente al puber romano.
Certo il De Magnalibus urbis Mediolani non è tutto qui.
In quest'occasione si è voluto previlegiare, accanto all'aspetto laudativo del carattere dei Milanesi, del loro impegno civico e operativo, che si vedrà in altra sede, l'eccellenza di Milano in rapporto alla fertilità del suo territorio e alla sovrabbondanza di ogni bene utile all'uomo, che hanno costituito la base di una stagione felice di Milano e della Lombardia che sarebbe durata fino alla fine del Quattrocento, ancorché intervallata, come del resto tutta l'Europa, da guerre e pestilenze.
|