Anno 4 - N. 11/ 2005
Il Giuramento e la Legge
“Giuro su Apollo medico, su Asclepio, su Igea e su Panacea…”, così inizia il Giuramento che in tutte le Università del mondo cosiddetto civile si insegna al neo-medico.
di Giulio Cesare Maggi
Il platano di Ippocrate
È atteggiamento naturale che sul declinare della propria esistenza a ciascuno venga in mente di affidare a qualche carta non solo le proprie volontà ma anche alcune riflessioni che ci illudiamo possano avere un minimo interesse per chi ci sopravvivrà.
Una sorta di epifania di sentimenti che il pudore ci ha vietato di rendere palesi, come pure qualche pensiero che supponiamo e speriamo possa giovare, oltre l’ambito familiare, a coloro che, più giovani di noi, proseguono nell’esercizio di quella che una volta si definiva, forse con una certa presunzione, arte medica.
Ci ostiniamo, forse con un certo narcisismo, a ritenerla e a chiamarla con tale nome, anche se oggi si preferisce da molti considerarla solo una disciplina scientifica che ha per oggetto la salute dell’uomo.
Quando poi ci accingiamo ad individuare l’elemento portante della nostra attività di medici e crediamo di saper dire con parole acconce in cosa consista la sua essenza, finiamo, malgrado i cambiamenti che il tempo apporta ad ogni attività umana, a far riferimento a quello scritto che si definisce il Giuramento di Ippocrate ed alla Legge ad esso correlata: il che significa far ricorso ad una saggezza di oltre due millenni.
“Giuro su Apollo medico, su Asclepio, su Igea e su Panacea…”, così inizia il Giuramento che in tutte le Università del mondo cosiddetto civile si insegna al neo-medico. E prosegue più in là “per aiutare i pazienti secondo le mie possibilità ed il mio criterio, ma mi asterrò dall’apportare danno ed ingiustizia”. “Non darò un farmaco mortale a nessuno, anche se richiestomi, né proporrò un consiglio di questo genere. Pura e santa conserverò la mia mente e la mia arte. Ciò che vedrò e udrò della vita degli uomini durante la terapia, o anche al di fuori di essa, lo tacerò, ritenendo tali cose segrete”.
E mai il medico sia spergiuro a questi principi, conclude lo scritto ippocratico.
Quale saggezza in queste poche ma essenziali prescrizioni che figurano incise nel marmo alla base del millenario platano di Ippocrate che nell’isola di Kos ricorda gli insegnamenti del Maestro.
Quanto il Giuramento sia stato considerato valido anche in epoca giudaico-cristiana ed ellenistico-bizantina è comprovato dalla sua trascrizione in forma di croce quale si può osservare in un manoscritto del secolo XII che si conserva nella Biblioteca Vaticana.
Accettato in ogni caso questo Giuramento anche presso le Scuole mediche laiche arabe e salernitana, esso va considerato “un testo senza età”. Ad esso molto si avvicina il Giuramento di Asaf, della medicina ebraica, il quale in più fa riferimento all’aiuto del Signore “poiché Egli è Colui che fa morire e rimanere in vita… che colpisce e cura”, in accordo con gl’insegnamenti rabbinici, ma senza contraddire minimamente al dettato ippocratico. E anche nell’Islam i medici e filosofi ebrei (basterà ricordare Mosè Maimonide di Cordova) furono rispettati ed ammirati per l’elevato livello etico della loro prassi, che per molti versi non si discostava dagli insegnamenti del Corano, come pure dal pensiero dei filosofi greci. Oltre ad Aristotele e Platone, anche Maimonide, per quanto concerne l’etica professionale e la sua ricaduta sul paziente, faceva riferimento all’etica epicurea.
Dice lo storico della medicina Giorgio Cosmacini “Come Giano bifronte il medico doveva trarre da qui… l’essere ricco di scienza, tanto quanto di valori”.
L’etica professionale è qui sempre nella linea ippocratica, pur con le evidenti componenti della sua visione filosofica che conduce Maimonide alle “buone azioni”: un’etica perciò finalizzata alla pratica.
Né si può ignorare, sempre di Ippocrate, quello scritto, forse stratificazione di precetti di numerose generazioni di medici, che vien detto la Legge, testo di una sconcertante attualità, e forse per sempre, che paragona i medici agli attori che in scena coprono il loro viso con la maschera, all’uso del teatro greco. Dice la Legge: “allo stesso modo, anche i medici, numerosi di nome, ben scarsi numericamente di fatto”. Quale solenne e staffilante rimprovero!
A fronte del quale esiste, e ce lo indica il testo ippocratico che vogliamo qui riportare (§ II), il vero rimedio:
“II. È quindi necessario che chiunque intenda formarsi una accurata conoscenza della medicina sia dotato di queste cose: inclinazione naturale, preparazione, luogo favorevole, istruzione della fanciullezza, amore per il lavoro, tempo.
Dunque in primo luogo di tutte queste cose è indispensabile la inclinazione naturale, poiché se questa crea impedimento, tutto è vano. Quando invece l’inclinazione naturale conduce al meglio, avviene l’apprendimento dell’arte. Questo bisogna che consegua con l’intelligenza colui il quale sia stato istruito sin dalla fanciullezza in un luogo che sia favorevole all’apprendimento. Inoltre deve avere amore per il lavoro per molto tempo, in modo che, istillato secondo natura, il sapere apporti frutti buoni e numerosi”.
All’epoca di Ippocrate e dei suoi epigoni, la medicina era arte riservata, come si vede, agli “iniziati”.
Perché, oggi forse no?
Se per iniziato si intende colui che sappia affrontare con animo sereno e lieto il lungo e faticoso, ma quanto gratificante, cammino di quella che, da vecchio medico ostinatamente attivo, considero la nostra arte.
La quale è scienza, è tecnica ma sarebbe poca cosa se non fosse alimentata, oltre che dalla passione, da un’attitudine al servire, con purezza di intenti, quelli che a noi si affidano.
Senza dimenticare quanto dobbiamo a Colui che ci dice “osserverete tutte le mie leggi e le mie prescrizioni”, Colui senza l’aiuto del quale tutto è vano, ed è solo alito di vento
|