Anno 1 - N. 1 / 2002


CONDIZIONI SOCIO-SANITARIE DEI CONTADINI ALL’INIZIO DEL ‘900

L’UOMO E LA TERRA

“C’è un guadagno per l’uomo\ in tutto lo sforzo che fa\ penando sotto il sole?”

di Osvaldo Tagliabue



La raccolta del fieno

Giovanni Segantini

Saint Moritz, Museo Segantini

La condizione sociale del proletariato agricolo, tra fine ottocento e primo novecento, fu di assoluta sopravvivenza. Il proletariato industriale, al contrario, seppe in pochi anni organizzarsi, ottenendo con ostinato impegno leggi sociali, a proprio vantaggio, migliorando le proprie condizioni economiche e morali. Il proletariato contadino, invece, che pur costituiva la maggioranza nel nostro paese rimase immobile, inerte, incapace di chiedere e ottenere riforme che potessero mitigare il proprio vivere quotidiano.
Un tranquillo stato di esistenza, determinato in massima parte dalle pessime condizioni economiche, intellettuali e morali.
Nell’Italia di allora non vi era un unico “tipo di contadino”. Differenze regionali, dovute a ragioni storiche, determinavano, anche in maniera sostanziale, la vita lavorativa.
Mentre nell’alta Val d’Aosta troviamo il contadino proprietario che coltiva la propria terra e vive in case confortevoli, nutrendosi con cibo vario e di qualità, in Lombardia e Veneto grossi fittavoli e mezzadri, conducono una vita accettabile. Alle loro dipendenze: salariati, obbligati e avventizi, persone mal nutrite, misere, pellagrose, che abitano in stanze antigieniche.
In Toscana e Marche mezzadri raramente benestanti, i pastori marchigiani proprietari di greggi conducono una vita nomade e malsana.
Presso Napoli ortolani coltivatori, gravati da fitti elevati. In Puglia raccoglitori di olive che lavorano 12-14 ore e dormono in capanne. In Calabria e Sicilia, alle dipendenze dei grandi latifondisti, i lavoratori agricoli vivono in stato di estrema povertà.
Il salario varia da regione a regione, la paga giornaliera, nell’anno 1905, di un avventizio in Piemonte è di £.2,30
in Liguria 1.95
in Veneto di 1.74
in Lombardia 1.60
in Emilia di 1.83
in Romagna 2.03
in Toscana 1.65
nelle Marche di 1.33
in Umbria 1.69
nel Lazio 2.02
in Abruzzo 1.91
in Campania 1.73
nelle Puglie 1.65
in Calabria 1.79
in Basilicata 1.88
in Sicilia 1.53
in Sardegna 1.75.
Una media, di £. 1.79.
Per le donne si scende da un massimo di £ 1.22 in Piemonte ad un minimo di 0.61 in Calabria, per i fanciulli da un massimo di 0.81 in Calabria a un minimo di 0.51 nelle Marche. I ragazzi contadini in Calabria, unica regione, percepiscono più delle donne. Mediamente si lavorava 225 giorni al’anno. Il contadino Piemontese in un anno percepiva £. 530.10, quello marchigiano 260.96.
La Lombardia in graduatoria si colloca terzultima dopo la Toscana e prima di Umbria e Marche.(1)

L’ALIMENTAZIONE
L’alimentazione era strettamente legata ai salari.
I proprietari dell’alta Val d’Aosta, si nutrivano con cibo composito e di qua-lità, i fittavoli e mezzadri del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e dell’Italia centrale con generi vari e di prima scelta: polenta fatta di mais maturo, pane di buona qualità, carne di maiale e non di rado di vacca o di manzo, polli e uova. Bevevano un vino accettabile, in particolare nel periodo invernale.
Per salariati, avventizi e obbligati il cibo sulla tavola era costituito giorno dopo giorno da polenta cucinata con farine di mais guasto, accompagnata da pesce affumicato, minestre di legumi condite con lardo, raramente compariva il pane. Il vino, di scarsa qualità, era distri- buito dai proprietari e dai fittavoli in concomitanza con la mietitura.
Nei paesi di montagna si faceva largo uso di farina di castagne ed era più facile trovare nell’alimentazione, in maniera più continua, il formaggio.
Nell’Emilia, in Toscana e nelle Marche vi era un discreto consumo di pane di frumento, anche se quello di mais rimaneva quello più in uso. In Calabria e nelle Puglie i contadini mangiavano pane nero di orzo, infornato due o tre volte l’anno; come companatico formaggio e patate.
Nella sporta delle mondine, di mattina, per il fabbisogno giornaliero, vi si trovava del pane, qualche finocchio, radici e un pezzetto di formaggio, mai uova né carne. (2)
Una mal nutrizione "obbligata" ma anche dettata da un atteggiamento avverso ad ogni innovazione. Il contadino per spegnere la fama tendeva a colmare lo stomaco con sostanze di volume ma poco nutrienti.

LE MALATTIE
L'alimentazione, le condizioni igieni-che e atmosferiche, la fatica dei campi all'inizio del 900, erano corresponsabili della maggior parte delle patologie che colpivano i lavoratori della terra. Alta era la percentuale di suicidi e pazzia.
Pellagra (carenza alimentare, caratte-rizzata da disturbi dell’apparato digerente e del sistema nervoso, con lesioni cutanee di tipo eritematoso), alcolismo, affaticamento cronico spesso sfociavano in patologie psichiatriche.
La febbre acuta da strapazzo si manifestava principalmente durante la mietitura o la mondatura del riso, nelle giornate afose, con temperatura fino a 40°, cefalee, dolori articolari, sonnolenza, sete ardente e inappetenza.
Nei contadini anziani non erano rare patologie come l'enfisema polmonare e il cosiddetto cuore da sforzo allora de- nominato "cuore da lavoro". Varici agli arti inferiori, sia negli uomini che nelle donne, teno-sinoviti, disturbi circolatori e vertebrali determinati da protratta flessione forzata del tronco.
Dagli atti del 1° Congresso Interna-zionale sulle Malattie del lavoro, Milano1906, risulta che, in Calabria, vi erano donne che fin dall’età di otto anni e per tutto il periodo lavorativo della vita, portavano sul capo pesi di 70 kg., determinanti malformazioni della colonna vertebrale, scoliosi, appiattimento della volta cranica, cuore da sforzo, enfisema polmonare e perdita dei capelli. In montagna donne, uomini e ragazzi erano sopraffatti dal peso delle gerle. L’atteggiamento di postura di bilanciamento del carico, procurava col tempo gravi disturbi alla colonna vertebrale e al bacino.
Nei periodi di maggior produttività, primavera e tarda estate, frequenti erano le affezioni contratte lavorando in aperta campagna a causa delle condizioni atmosferiche e del prolungato orario di lavoro: polmoniti e pleuriti, nefriti acute, artrite reumatica articolare, enteriti acute. Altre forme, oggi si direbbe allergiche, erano: la febbre da canapa, da fieno e l’asma.
In Sardegna, in Sicilia, e nel Napo- letano insorgevano forme morbose causate dal polline delle fave comuni, con ittero cutaneo, febbre e cefalea.
Fonte di malattia erano le stalle.
La maggior parte di esse erano anguste e prive di una buona ventilazione. L’aria era inquinata dalle esalazioni del letame, dalla respirazione degli animali e degli uomini che usavano, specialmente in inverno, ritrovarsi all’interno della stalla, essendo il luogo pù caldo della casa.
Alcuni addetti, come il capo famiglio avevano l'obbligo di dormire nella stalla su tavolato coperto da paglia o fieno. L'operazione di mungitura avveniva due volte al giorno, alle tre del mattino e alle tre del pomeriggio. Il lavoro dei famigli iniziava all'una di notte. Si spurgavano i colatoi, si cambiava lo strame, composto di erbe secche e foraggio, si distribuiva la razione di fieno, si accudiva il bestiame, lo si mungeva.
Verso le sei il lavoro termina e si ritorna al sonno. Si riprende verso l'una del pomeriggio per terminare alle sei. Gli stallieri spesso erano colpiti da malattie infettive: il carbonchio, la morva (letale malattia infettiva degli equini dovuta a un microrganismo specifico "Malle-omyces mallei" che provoca gravi ulcerazioni della pelle e delle mucose), l'afta epizootica, il tetano, l'actinomicosi (malattia causata da batteri "Actino- miceti" caratterizzata dal formarsi nei tessuti di granulomi, al centro dei quali si notano caratteristiche masse tondeggianti).
Nell'Italia di inizio 900 la malaria era molto diffusa, più che in qualsiasi altra re- gione d'Europa. Dall'elenco redatto dal Ministero degli Interni, anno 1906, si rileva che su un totale di 69 province solo undici ne erano immuni e precisamente: Ancona, Arezzo, Cuneo, Firenze, Genova, Lucca, Macerata, Roma, Pesaro-Urbino, Piacenza e Porto Maurizio.
Ne erano affetti operai dell’industria, contadini, ferrovieri e perfino militari. Nel 1900 i morti per malaria furono 15.865, nel 1901 13.348.
Nel 1907, grazie a una sorta di campagna "Pubblicità Ministeriale" del chinino, cura e profilassi, i decessi scesero a 4.690.(3)

GLI INFORTUNI
Nel 1904 morirono per morte violenta accidentale 1.961 agricoltori sopra i 15 anni.
Le statistiche del Ministero dell'Agricoltu- ra di quell'anno riportano come cause più frequenti di morte : la fulminazione (134 vittime), lo schiacciamento (101), per caduta (788), per ustione (76), per freddo, per insolazione, per ferita da taglio, per violenza d'animali, per morsi di vipera. Nella statistica non sono comprese le donne e i ragazzi al di sotto dei 15 anni e non sono menzionate le invalidità permanenti e temporanee.
A rischio di infortuni letali erano gli agricoltori che lavoravano su macchine trebbiatrici, i boscaioli per il taglio e il trasporto di tronchi e gli addetti ai cannoni grandinifughi.
Nelle risaie erano innumerevoli le ferite ai piedi, causate dalle rigide punte delle canne che sporgevano a filo d'acqua, ferite che suppuravano e che potevano portare a un esito infausto per setticemia o tetano. Non meno frequenti erano le lesioni alla cornea da puntura di canna, vittime soprattutto le mondine.
Nei lavori di potatura, vendemmia, mietitura e falciatura era notevole la frequenza di ferite profonde, in particolare alle mani con recisione dei tendini e conseguente, permanente incapacità degli arti.
Le cadute dagli alberi interessavano, principalmente, i raccoglitori di frutta, gravi i traumatismi per gli addetti alle mandrie, il tutto in assenza (1907) di una assicurazione antiinfortunio, che era invece riconosciuta ai lavoratori della industria.

Una descrizione circostanziata della condizione contadina dell’Italia inizio 900. Lentamente, col passare dei decenni, l’alimentazone si faceva più composita e certe malattie venivano debellate, ma sostanzialmente questa realtà d’insieme si potrarrà fino agli anni cinquanta.
Solo allora, col mutare delle condizioni socio politiche, il lavoro dei campi assumeva una condizione più umana.


Immagini a commento di:
Giovanni Segantini (n°3)
Iovanni Fattori (n°2)
Felice Carena (n°1)