Anno 4 - N. 10 / 2005


UN CERTO VIAGGIO

Il viaggiatore raggiungerà l’essere vagabondo qualche tempo dopo superando lo spaventoso segmento di tempo tra gli impegni lasciati e l’attesa della rivelazione

di Maurizio Chierici




Dopo ogni viaggio continuiamo a viaggiare in sogno, chilometri su strade dove il traffico resta immobile. Ritroviamo i colori attraversati nella realtà: neve, campagne, squarci di mare. O aerei in fuga da terminali gremiti, o navi, simbolo arcaico di ogni avventura. A volte scappiamo su treni talmente lunghi che solo quando i binari piegano il loro arco si scorge lontana la locomotiva. Il destino non si rivela nelle scoperte previste dal programma delle agenzie, seduzioni semplici da rintracciare nelle guide di piaceri e cattedrali, musica e monumenti promessi in terre lontane. Capire non è necessario, ma fotografare con ritmo giapponese resta un comandamento al quale é impossibile sottrarsi. Ma per viaggiare, viaggiare davvero, è necessario sfumare le pieghe visibili dell’avventura per seguire le tracce previste dal lavoro o dal piacere nel silenzio di chi guarda da solo. È il segreto di un viaggio diverso.
Succede che nei viaggi reali si raccontino a compagni occasionali storie di altri viaggi. Il ricordo di lontane traversate riaccende la memoria e si è perfino disposti ad una meraviglia sincera nell’ascoltare le memorie di viaggio di chi ha appena ascoltato le nostre. Piacere che non coincide con l’attesa degli insofferenti alla banalità; insomma, all’idea che viaggiando si diventi un’altra persona. Il viaggio ci libera provvisoriamente da reticenze, impazienze, perbenismi; soprattutto del nostro passato, riducendo l’accumulo di glorie e dolori al contenuto di una valigia. Anche la nostalgia diventa un filo che cambia colore. Il resto è folklore.
Eppure parlando senza freni negli incontri improvvisati manteniamo un silenzio misterioso. Questo silenzio diventa il viaggio nel viaggio. Segreto che qualche volta - ma solo qualche volta - riusciamo a trasformare in parole perché è complicato mettere ordine alle emozioni della nostra navigazione nascosta. Non si misura in chilometri, ore d’aereo e nebbie che spariscono nei deserti, differenza tra la quotidianità e le luci lontane che tagliano le pareti. La distanza ha altri metri. E solo chi viaggia decide quando è il momento di sciogliere gli ormeggi.
Il corpo del viaggiatore è più frettoloso dell’ anima che i pensieri ingrigiscono. Il corpo decide e subito comincia a viaggiare appena incontra lo sguardo azzurro degli oblò. Ma lo spirito ritarda. Si deve liberare delle croste lasciate a casa. La sua curiosità raggiungerà il vagabondo qualche tempo dopo superando lo spaventoso segmento di tempo tra gli impegni lasciati e l’attesa della rivelazione.
È sempre successo. Quando le navi non erano città illuminate, ma barche dalle luci fioche, Giamblico, filosofo di Damasco, osservava le vele che accostavano il porto di Alessandria, teorizzando nei suoi «Misteri Egiziani», un fenomeno dalla definizione ermetica eppure spiegabile con parole semplici: bilocazione, corpi e anime che le traversate separano per un tempo indefinito ma che alla fine il vuoto riunisce perché l’osservazione di quel niente che la logica della città attribuisce alle distese senza segni all’orizzonte, rianima la voglia della scoperta e trasforma la vita con emozioni che sembrano provvisorie eppure si insediano per sempre nel ricordo.
Due volte ho provato l’ebbrezza di quel viaggiare, corpo e anima unite, solo due volte: esperienze mai più ritrovate.

Il treno che mi accompagna a Samarcanda ha il passo di un cavallo stanco. Vagoni dimenticati dall’Unione Sovietica. Prima della partenza, Kapuscinski (fascino di un scrittore polacco dalla scrittura rapida, affinata negli anni della censura) mi aveva raccomandato di non sbarcare dall’aereo per scoprire all’improvviso la città di Tamerlano, ma scegliere il treno che avvicina la meraviglia con ritmo esasperante: non più di 35 all’ora, nove giorni da Bukara a Mosca. Al tramonto ho lasciato la città dei tappeti non lontana dal mare di sabbia d’Aral, per attraversare la notte fra le tende e i velluti rossi di un vagone pieno di viaggiatori.
Com’è Samarcanda? Voglio sapere dalla signora seduta di fronte, ancora nove notti per arrivare a Mosca: sta cenando. Insiste perché le faccia compagnia. Gesti, non parole. Io non conosco le sue, lei ride delle mie. Dalla borsa escono piccole pentole e il profumo delle verdure avvolge la carrozza. Parla senza smettere, immagino del passato, forse confondendo il tempo con la nostalgia che la lega alla città «dal cuore malato». Sto solo immaginando; ogni tanto sorrido per consolarla. Ma lei sa che non capisco eppure non ne sembra turbata. Parla fino a che il sonno la spegne.
Finalmente, nel silenzio, posso aspettare Samarcanda. Quando il giorno accende il ghiacciaio del Pamir, le cupole di Samarcanda galleggiano nella nebbia come astronavi. La città si avvicina sospesa nel verde e nell’oro, meraviglia da scoprire lentamente come consigliava Kapuscinski. È il momento in cui l’impazienza esaspera il desiderio. Fretta di scoprire la sepoltura della spada del tiranno zoppo, innamorato dei palazzi pur continuando a dormire nella tenda di nomade della guerra. L’angolo nel quale sopravvive il ghetto.
O la stanza dove il professore che sta traducendo dal francese «Il deserto dei tartari », perché l’italiano di Buzzati è lingua ancora sconosciuta anche se comincia al balbettare all’università. «Dove vai ?», vuol sapere il taxista indiano. La stanchezza suggerisce «in albergo», ma chissà se é la luce del mattino a rivelare, nel tempio dove forse si nasconde il nipote di Maometto, «le porte dell’al di là ». Inseguendo l’utopia, comincia la scoperta.

Un’altra volta, nel piroscafo che attraversa i mari dell’Amazzonia, ho ritrovato l’esperienza del viaggiare corpo e anima unite in una strana meraviglia. Imbarco a Porto Velho, Brasile, confine con la Bolivia. Devo prendere un aereo a Manaus, due giorni più giù. Il fiume si chiama Madeira, fiume del legno, ed è un mare giallo soffocato dalla foresta. Fila di navi che aspettano. Navi che possono affrontare l’oceano. Tre orchestre suonano nei tre ponti del Las Vegas. L’aria condizionata scioglie il disagio gommoso dell’umidità. Roulette che girano giorno e notte. Anche i marinai sono marinai veri, stranamente veri perché nessuno ha mai visto il mare. Su e giù per il fiume senza sale sulle labbra. Comincia il viaggio verso il Rio delle Amazzoni, surreale in quanto non ci sente prigionieri di una foresta lunga seimila chilometri. La nave attraversa la doppia realtà fingendo un cammino normale. Dentro, uomini d’affari che si comportano come fossero nella hall di qualsiasi Hilton. Fanno conti, dettano lettere, si appisolano nelle poltrone del bar col computer sulle ginocchia. Oppure vanno a giocare, o ballare: il carnevale delle ragazze che si spogliano non finisce mai. Ma la tentazione di aprire una porta trasforma il viaggio.
Un passo fuori dall’aria condizionata diventa un passo indietro nei secoli. Ritrovo lo sgomento dei primi esploratori portoghesi il cui vaso di Pandora nascondeva donne guerriere, ecco le Amazzoni. Il viandante tecnologizzato respira il vento caldo della foresta. Grida di animali, luna oscurata da nuvole dei mosquitos, ali di uccelli sconosciuti sfiorano i pennoni.
Dai villaggi di paglia le barche accostano con piume colorate: mercanti nella piazza mobile del fiume. Ogni pomeriggio il cielo si abbassa, piove con la forza da ultima stagione del diluvio universale. Gli alberi si curvano, sponde che sputano acqua come cascate. Il fiume cambia. Non proprio un mare in tempesta, ma nel tagliare la corrente dove galleggiano tronchi e carcasse, il beccheggio diventa insopportabile. Sembra nebbia; sono insetti in coda alla nave come delfini. Avvolgono oblò e parole. Meglio scappare nel nostro secolo. Un passo dentro. Torna la musica e gli scoppi delusi della roulette. Un signore si arrabbia perché il fax non funziona. Il salto nel tempo diventa un flash che annulla la sorpresa della bilocazione e per un attimo confonde la ragione. Per un attimo.

C’è chi non ha il coraggio di lasciar- si andare e si rassegna alla non curiosità di un’emozione da rinforzare con l’aiuto di un libro. Insomma, non parte mai. Il mio viaggio nella Terra del Fuoco comincia da un libro di Francisco Coloane, scrittore cileno. Lo sdegno animava il vecchio scrittore mentre confessavo di voler parlare del suo romanzo senza avere mai affrontato un mare in tempesta. «Non puoi capire», si inquietava. Patriarca imponente, barba bianca, occhi da bambino. Gran parte della vita l’aveva passata a rincorrere balene, a tener vivo il raggio dei fari, tosare pecore, esplorare le ombre del Polo Sud. Come Melville, ingannava i silenzi, scrivendo. E non sopportava si potesse scrivere dei suoi racconti nei quali il vento strappa le pagine con le tempeste, senza aver affrontato quel mare, almeno una volta. «Puoi scrivere un romanzo d’amore se mai hai conosciuto l’amore ?».
La Terra Australis lascia Punta Arenas nella notte; al mattino mi sveglio circondato da piccoli iceberg che sfarinano dalla cordigliera di Darwin. Ero uscito dalla casa di Coloane con la felicità di chi cammina nell’esperienza dello scrittore amato. Ma lo stretto di Magellano si divincola noiosamente fra ghiacciai sempre uguali. Cambiano solo i nomi seminati con fervore italico dal geografo padre Alberto De Agostini. La smitizzazione insinuava il tradimento e il tradimento - mi consolavo - può aprire un altro viaggio. Personale, intrigante. Che strano amore quello di Coloane. Lo adoravo da lontano e mi innervosivo perché le sue emozioni non mi travolgono. A volte le letture non sopportano il confronto con la realtà. Ormai non scendo dalla nave per fotografare foche e leoni marini. Mi sono accorto che, nelle ore vuote, i passeggeri scrivono diari su quaderni abbandonati nei tavoli della sala di prua. Occhi perduti fra le pieghe verdi degli iceberg e poi due righe.
Quando scendono, resto solo. E i quaderni sono lì.
Che lettura sconsolata. Ogni viaggiatore è partito da casa con gli stessi libri: Coloane, Sepùlveda, la Patagonia di Bruce Chatwin. Le vecchie signore francesi di Bordeaux; la ragazza americana sospirosa quando sorride al primo ufficiale che impera sul ponte nella divisa prussiana della marina del Cile, nero come capitan Nemo; l’americano al secondo viaggio di nozze con la seconda moglie; perfino la sposa pallida, capelli rossi, del capitano Pruft, tutti, raccolgono nel diario tempeste rubate a scrittori sfogliati in segreto nel tepore delle cabine: « Le onde si abbattevano sull’imbarcazione come elefanti agili e molli. L’acqua mi schiaffeggiava il volto e avevo l’impressione di essere bagnata da lingue pesanti…». Fantasmi che uniscono le signore francesi di una certa età alla ragazza americana pronta all’amore.
Le tengo d’occhio. Si sfiorano senza una parola, sorrisi di convenienza che allontanano emozioni di carta inconfessabili: Coloane, Melville, Conrad e Darwin, insomma gli stessi libri, in valige diverse, uniscono le fantasie pigre nel silenzio. Il timore di non capire trasforma qualche viandante in pensatore dubbioso. Vuol sapere prima di guardare. Rifiuta la sorpresa.
E nelle ore che precedono l’uscita dallo stretto di Magellano dove gli oceani si scontrano liberi da ogni terra, il salone resta vuoto: dietro la porta delle cabine le signore anticipano i turbamenti che scuoteranno i loro cuori appena la nave incontrerà la tempesta. Forse sarà Darwin a prestare le sue paure: «Un solo sguardo basterebbe per chi non fosse accostumato al mare, a sognare per otto giorni pericoli e naufragi.
E i nomi dei posti che dovremmo attraversare non consolano. Isole che si chiamano Furia, Desolada. Baia del Diavolo, Degli Annegati o del Finimondo …». Immagino il turbamento delle signore di Biarritz, della ragazza americana, o della luna di miele, nello studiare le pagine da copiare mimando l’angoscia del momento in cui incontreranno «la veemenza di onde formidabili, sollevate da venti spaventosi, direzione nord ovest ».
A Puerto William, dietro Capo Horn, i passeggeri scendono raggianti per il viaggio ricopiato nei diari chiusi in valigia. La curiosità non aveva raggiunto i loro corpi timorosi. Ma il non saperlo li manteneva felici nella convinzione di aver visto e vissuto, mentre avevano solo spiato le emozioni degli altri.