Anno 4 - N. 10 / 2005
ELOGIO DELLE LACRIME
di Giulio Cesare Maggi
Phrenology - Ceramica inglese 1930 ca. collezione privata - Fotografia di Franco Capra
Cerco invano su una bella Frenologia in ceramica inglese degli anni Trenta un’area dedicata al pianto tra le numerose che interessano le funzioni della psiche umana. E mi accontento provvisoriamente – è una mia iniziativa di comodo – di collocarla vicino a quella della “natura umana”, associata, chissà perché, a quella della “benevolenza”.
Difficile estraniare il pianto dall’amore: ancor più complicato stabilire quando l’uomo (ma per ora non ancora la donna) si proibì di piangere per imporsi la propria virilità ed in particolare il proprio distacco dal mondo dell’infanzia.
Al bambino è infatti lecito piangere mentre l’adulto ha creduto suo dovere e stigma del suo status symbol allontanare da sé (o non piuttosto racchiudere nel segreto del proprio cuore?) il fanciullino che ciascuno di noi conserva di sé ed in sé.
Ecco forse perché la mia Frenologia non ha iscritta questa straordinaria virtù dell’animo umano che è il pianto: il quale non può concedersi all’uomo e che invece, con maggior sincerità, la donna, oltre al bambino, hanno conservato.
Il pianto, si chiede Roland Barthes, è forse una peculiare predisposizione di tipo amoroso? E ricorda come il giovane Werther goethiano, ad ogni minima emozione amorosa, anche di felicità, scoppia in lacrime: quindi l’innamorato o il romantico non si curano minimamente della censura che, come si è detto, tiene il maschio adulto lontano da questa manifestazione emotiva, erroneamente ritenuta appannaggio esclusivo del sesso femminile.
Del resto persino l’Imperatore Adriano, uomo duro ma di finissima sensibilità, alla morte dell’amato Antinoo, affogato nel Nilo, piange come una femmina (flevit muliebriter), come ci racconta Sparziano.
Segno questo del pianto, degno di un atteggiamento, forse di un’attitudine umana, assai più di quanto non sia la repressione dei sentimenti e che il saggio considera connaturata all’Uomo come tale.
L’espressione “liquida” – le lacrime – dell’emotività amorosa della quale soprattutto si parla qui, riguarda non solo quella dell’oggetto del proprio sentimento personale, corrisposto o no che sia: essa fa riferimento anche a quell’amore universale, che riguarda il nostro simile, l’altro, e persino il nostro “dissimile”, non meno degno di amore fraterno.
Di fronte al pianto come catarsi liberatoria, viene ancora qui da ricordare quello di Werther e Carlotta che piangono insieme, nello scrivere a Klopstock, per un sofferto romanticismo. Non è tuttavia un pianto doloroso quello di Werther: lo sarà solo alla fine del romanzo. E lo stesso Goethe, nell’introduzione a “I dolori del giovane Werther” così si rivolge ai lettori: “Non potrete negare la vostra ammirazione, il vostro amore al suo spirito ed al suo carattere né le vostre lacrime al suo destino”.
È stata posta la domanda: “Chi scriverà la storia delle lacrime?”.
Basterebbe forse seguire la storia dell’Umanità. Qui si è voluto far menzione non del dolore particolare di ciascuno e di quello universale, ma solo di quello, più accettabile, legato al pathos, di quella tensione amorosa che accompagna e caratterizza il nostro mondo interiore e la sua espressività affettiva.
Non è improbabile, anzi è convincente che sia così, che per essere sempre “dedicato” esso sia diversamente espresso. Pensiamo qui esclusivamente a quel moto dell’animo, determinato da una tensione emozionale, segnatamente amorosa, che si esplicita con una declinazione di pathos o di empatia: il pianto, le lacrime, costituiscono quindi una categoria dello spirito che ogni persona di elevata sensibilità deve riservare a se stesso, ma meglio ancora se all’alterità, singola o universale.
L’importante è che non ce ne scordiamo:
“Per un istante l’eco fa ritorno
della prima poesia di nostra vita
come lontana nella notte una musica che
dilegua”. (C. Kavafis)
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