Anno 4 - N. 10 / 2005


IL CASATO DEI MALASPINA

“COSA VOLETE, IN SIFFATTI PAESI CHE NULLA PRODUCONO BISOGNA PUR VIVERE DI RAPINA!”

Molti sono i personaggi e gli avvenimenti degni di nota sia dello spino secco che di quello fiorito. gli alberi genealogici, articolati e complessi, testimoniano forse, più di ogni altro discorso, la ricchezza, la complessità, gli imparentamenti e anche, se si vuole, la prolificità dei Malaspina

di Giuliano Tessera



Sarcofago di Galeotto Malaspina - Fosdinovo chiesa di San Remigio


Il nome “Malaspina” è indicato chiaramente per la prima volta nel 1084 e all’inizio non fu che un soprannome sulla cui origine molto, come è stato detto (U. Burla, “Malaspina di Lunigiana”, Luna Editore, La Spezia 2001), si è favoleggiato.
Era l’anno in cui Alberto II aveva seguito il padre Obizzo II in battaglia, poi, sempre secondo le testimonianze, l’Imperatore Arrigo V in Germania, per arrivare, infine, a contribuire all’elezione a pontefice di Innocenzo II, contro Anacleto, antipapa.
Il soprannome divenne poi “cognome” e forse alludeva semplicemente, come è probabile, al carattere diciamo non facile, “spinoso” appunto, dei Malaspina. Lo spino, presente su tutte le insegne araldiche, sugli stemmi, le armature etc. era originariamente soltanto “secco”.
Nel 1221 il casato si divise in due parti, ognuna della quali avrebbe avuto una propria storia: nacque, per così dire, lo spino “fiorito”. Corrado (spino secco) e Obizzone (spino fiorito) però, quantunque divisi ormai in due “rami”, mantennero la loro unità nel difendere gli interessi della famiglia soprattutto contro il vescovo di Luni.
Furono però divisi alla calata di Arrigo VII di Lussenburgo finché nel 1306, con la pace di Castelnuovo contrattata per i Malaspina da Dante, vennero riconosciute tutte le conquiste fatte nel XIII secolo. In seguito Spinetta il Grande (spino fiorito) venne quasi completamente spossessato da Castruccio Castracani, ma alla morte di costui poté riprendersi tutti territori nella Garfagnana, nella Lunigiana orientale e meridionale fino a Sarzana.
Tra il XV e il XVI secolo genovesi e fiorentini si impossessarono di gran parte dei territori dei Malaspina di entrambe i rami. I feudi rimasti resistettero sino all’età napoleonica; il Congresso di Vienna (1815) li attribuì, infine, al ducato di Modena.
Va ricordato, sia pur per pura curiosità, che non mancavano nomi fortemente allusivi nella dinastia: il “Malnipote” (Obizzo), un “Pela-vicino”, un “Ribaldo” e così via. Comunque sempre denominazioni che, in qualche modo, possono far intendere il carattere non certo mite della casata e della loro particolare predisposizione per i metodi non garbati, da qualsivoglia tipo di spino provenissero. E, di questa attitudine, si sono volute anche rintracciare le possibili origini: nella legge sulle successioni longobarde che portava a confronti spesso fratricidi all’interno delle famiglie, nel minuto frazionamento dei feudi, causa delle perenni rivalità, nella povertà del territorio e delle risorse economiche.
Per quanto non unici i Malaspina crebbero infatti, tra l’altro, sul così detto “brigantaggio feudale”, nel taglieggiamento cioè dei mercanti e anche dei pellegrini che transitavano sulle vie, alcune famose e importanti come la via Francigena.
Le cronache tramandano una significativa espressione che Obizzo I avrebbe pronunciato, come se fosse una confessione, rivolgendosi all’imperatore Federico Barbarossa, nel 1167:
“Cosa volete, in siffatti paesi che nulla producono bisogna pur vivere di rapina!”, papale papale.
L’origine dei feudi dei Malaspina erano molto datate. Berengario II, re d’Italia aveva infatti costituito le tre “marche”: di Torino, concessa a Arduino d’Ivrea, della Liguria Occidentale, concessa ad Arelamo, da cui i marchesi di Monferrato e della Liguria Orientale, concessa a Oberto, conte di Luni, con i centri di Tortona, Genova e Luni appunto.
Da Oberto I derivarono importanti rami nobiliari: Este, Pallavicino, Cavalcabò, i marchesi di Massa, Corsica e Sardegna, i principi di Brunswick e di Hannover, e i Malaspina con Alberto I detto il Malaspina, capostipite, padre di Opizzo I Malaspina. I precedenti vanno ricercati però ancora più indietro, nella politica di contenimento di Carlo Magno, dal IX secolo in poi, delle scorrerie delle flotte musulmane e delle loro penetrazioni nelle valli appenniniche che partivano in genere dalla munitissima base di Frassinetum (St. Tropez). Anche Genova venne distrutta dai musulmani e persino l’abbazia benedettina di Novalesa a soli 60 Km. da Torino venne distrutta. Alla puntuale reazione cristiana parteciperanno, un secolo dopo, anche i Malaspina. Ma è, come si diceva, con Berengario II d’Ivrea, re d’Italia e nelle sue guerre contro i feudatari d’Italia, Francia e Germania, che emerge il potere degli Obertenghi. Oberto verrà nominato Marchese e, poi, primo Conte di Luni dando origine all’affermazione della dinastia obertenga che tanta parte avrà nel governo dei Comitati di Luni, Genova e Tortona, con potere anche nei confronti di Parma, Piacenza, Bobbio, Lavagna e Borgotaro. Il potere si accrebbe a tal punto che, dopo il Mille inizierà una contrapposizione tra i Vescovi-Conti di Luni, sostenuti dal Re Berengario, dall’Imperatore Ottone I e dal Re Federico I, e gli Obertenghi, appunto.
Dagli Obertenghi ai Malaspina dunque, con il loro progressivo controllo di una vasta zona di Appennino, tra la Lunigiana e la Pianura Padana sino al castello di Auramala (Oramala) nell’Oltrepò Pavese e di Nazzano all’abbazia di San Colombano di Bobbio, ai territori del basso corso del Trebbia, al castello di Rivalta.
Obizzo I Malaspina, detto “il grande”, già ricordato per la sua dimestichezza con l’Imperatore visse a Oramala come la sua progenie. Da un figlio, Obizzo II e da Giordana del Monferrato, nacque Corrado l’Antico, ricordato da Dante nel Purgatorio.
Diversi poeti occitani, (provenienti dalla Francia meridionale) dal XII secolo in poi, varcarono le Alpi e trovarono ospitalità presso le più importanti casate poste tra l’Appennino e il Po, e i Malaspina furono tra queste.
Una autorevole storiografia locale sostiene che i Malaspina, però, furono Signori di ormai anacronistici borghi-stato, più orientati al sottosviluppo che alla crescita locale, impedendo di fatto la nascita di una borghesia attiva nei loro contesti. Perciò, mentre si assiste in tutta Italia a un progressivo sfaldamento del sistema feudale, i Malaspina riusciranno a conservare una loro statica egemonia in Lunigiana sino alla Rivoluzione Francese, quando, finalmente, anche Pontremoli e Sarzana potranno cominciare delle vere e proprie funzioni di città come sino a quel momento non era stato loro concesso.
Molti sostengono che fu proprio la presenza dei Malaspina a impedire l’unione e lo sviluppo della Lunigiana, sfavorita per altro anche dalle assillanti mire della Repubblica genovese, del Granducato di Toscana, del Ducato di Milano. A ciò, per concludere su questo punto, contribuì non poco la bassa natalità e la natura avara della terra.



“FORUM GRAGNOLAE ET CASTRUM AQUILAE”

Molti sono i personaggi e gli avvenimenti degni di nota sia dello Spino Secco che di quello Fiorito. Gli alberi genealogici, articolati e complessi, testimoniano forse, più di ogni altro discorso, la ricchezza, la complessità, gli imparentamenti e anche, se si vuole, la prolificità dei Malaspina. Ogni personaggio pertanto sarebbe meritevole di menzione se non di attenzione e, tra questi ad esempio meriterebbero almeno un approfondimento a parte Spinetta il Grande, signore della Verrucola, capostipite dello Spino Fiorito e tra i più vicini a noi Alessandro Malaspina, il Navigatore, sui quali vorremmo tornare.
In questa occasione però vorremmo concentrare l’attenzione sul ramo di Castel dell’Aquila e del piccolo feudo malaspiniano di Gragnola unito spesso, come fu, a quello di Fosdinovo, anche per delle malefatte comuni commesse.
Ci troviamo, come ben testimonia una recente appassionata e personale memoria storica (Giovanni Poleschi “Gragnola e il Castello dell’Aquila – Dal Medioevo al Rinascimento”; a cura dell’Associazione Storico Culturale – La Valle dell’Aquila- Gragnola, in Lunigiana, nel piano alluvionale generato dai torrenti Lucido e Aulella.
“Il toponimo “Gragnola” sembra trarre origine dal commercio del grano che ivi in epoca medievale aveva trovato un mercato molto sviluppato”. Comprendeva tre piccoli paesi: Gragnola, appunto, Cortile e Viano, e altre “ville” come Gassano, Monte de’ Bianchi, Pian di Molino, Monzone, Vinca, Equi, Ugliano, Codiponte, Ajola e altri. Verso est confinava con la Lucchesia, a nord coi torrenti Tassinara e Aulella, a sud-sud ovest con Fosdinovo.
Il castello, circondato dal verde dei boschi, osserva il borgo dal cucuzzolo di un monte sovrastante l’abitato.
Non sembra siano note le origini del castello le cui prime tracce risalgono al ‘300, quando il centro del territorio era da considerarsi il borgo di Viano, che nel 1355 Carlo IV conferì ai figli del marchese Azzolino.
Il feudo ebbe due casati dei Malaspina, derivanti da quello di Fosdinovo; a metà del ‘300 fu ceduto a Spinetta il Grande, quindi ai nipoti, figli del fratello Azzolino il cui figlio Galeotto divise i suoi beni designando Spinetta feudatario di Fosdinovo e Leonardo di Gragnola e Castel dell’Aquila. Il suo casato, il primo di questo feudo, durò solo due generazioni. Leonardo visse, combatté e morì lontano dal suo feudo e lasciò due figli, Leonardo II e Galeotto, dotati di scarso discernimento come è testimoniato, autori della tragica strage della Verrucola nel 1418.
Ciò, come è noto, provocò l’intervento della Repubblica fiorentina che tolse ai due assassini il loro feudo e affidò al piccolo superstite della strage, l’infante Spinetta, sia pur in parte limitata, il governo del territorio mentre la parte maggior andò a Antonio-Alberico di Fosdinovo che, alla morte dei due fratelli autori della strage, divenne titolare del feudo. Successivamente il feudo toccò a Lazzaro, col quale iniziò il secondo casato che durerà sino al 1640, quando si estinguerà con la morte del Marchese Alessandro.
Da Lazzaro in poi la storia procede come su un piano inclinato costellato da diatribe interne, occupazioni, omicidi col risultato di spezzettare il feudo e con marchesi ridotti progressivamente a reggere domini di poche case, con l’unico obiettivo di dissanguare le ultime risorse dei residenti.
L’ultimo discendente, lo scapolo Alessandro, in odio alla parentela, lasciò il feudo al Granducato, nel 1640. Così si estinse anche il secondo ramo del casato dei Malaspina di Castel dell’Aquila e la rocca, antica costruzione dei Bianchi, “fosco arnese di guerra e di rapina”, resa signorile dai Malaspina, andò progressivamente in rovina e ridotta a rudere.

Oggi, dopo un lungo restauro, dopo aver tolto il bosco dall’interno delle mura e dalle rovine, il Castello dell’Aquila di Gragnola è pronto a iniziare il cammino non facile, mai tentato prima, della cultura e della testimonianza.


Dante, i Malaspina e la Lunigiana

Dante Alighieri venne chiamato a intervenire, quale mediatore, tra le trattative che i Malaspina conducevano nei confronti di Antonio Nuvolose da Camilla, Vescovo-Conte di Luni. Siamo nel 1306. Dante dovrà rappresentare Franceschino, Corradino e Morello che aveva conquistato, l’anno precedente, la fortezza di Serravalle, dove Dante si trovava proscritto da poco.
La vittoria dei guelfi neri farà dire a Dante nel XXIV canto dell’Inferno:

“Tragge Marte vapor di val di Magra
che è di torbidi nuvoli involuto
e con tempesta impetuosa ed agra
sopra Campo Picen fia combattuto:
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogni Bianco ne sarà ferito.
E detto l’ho perché doler ten debbia!”

Dopo quattro anni Dante, che proveniva da Mantova e Reggio, si ritroverà coi Malaspina, transitando per il passo del Cerreto verso Fivizzano. Così nel IV Canto del Purgatorio, stupito dall’imponenza della pietra di Bismantova, dirà:

“..montasi per Bismantova in cacume
con esso i piè, ma qui convien ch’uom voli”.

Se Dante sarà senz’altro alla Verrucola e ad Aulla, non sarà però ospitato da Moroello nel 1306 in quanto costui si trovava certamente a Lucca come Governatore della città tra l’altro in compagnia di alcuni acerrimi nemici di Dante. Sicuramente il poeta conobbe sua moglie, Alagia Fieschi, come lo stesso Boccaccio ha modo di ricordare. Dante, infatti, le lesse alcuni canti della Commedia giunta allora sino al VII canto dell’Inferno.
Altre importanti citazioni sulla presenza di Dante in Lunigiana ci provengono poi da Vincenzo Monti e Gabriele D’Annunzio.
La stima e l’amicizia tra Dante e i Malaspina è ampiamente testimoniata, a più riprese, nella Commedia, sempre frammischiate alla nostalgia per la Lunigiana, terra che lo ospitò durante il suo esilio così come per i Malaspina esaltati:

“per il pregio della borsa e per la spada”.

Non sarà invece ospite nel castello di Fosdinovo perché costruito solo nel XVI secolo, e, se lì vi fu, sarà stato probabilmente ospite dei Bianchi d’Erberia.


IL MISTERO DELLO SCHELETRO DEL CAVALIERE DI CASTEL DELL’AQUILA

Durante le fasi di restauro, sotto il pavimento probabilmente di una porcilaia, attigua al cortile centrale del castello, gli scavatori dell’impresa edile rinvennero alcuni frammenti ossei e sospesero subito il lavoro. Era il 19 febbraio 2004.
Fu necessario e urgente un intervento qualificato di esperti archeologi e antropologi (oltre alle autorità competenti della Soprintendenza ai Beni Archeologici ed anche dei Carabinieri) che, subito chiamati intervennero, iniziando le operazioni di recupero e l’accertamento dei resti. Venne alla luce uno scheletro, un medaglione e qualcosa conficcato nel cranio
Alle ore 17,30 del 26, con precisione un po’ burocratica, venne reso noto che alla base del cranio era comparsa una punta metallica ancora conficcata nella seconda vertebra cervicale, che aveva fratturato alcuni denti superiori, provocando forse la morte (che avrebbe potuto però essere anche precedente).
Un attento esame radiologico dell’oggetto in ferro rivelò, senza ombra di dubbio, che si trattava di un dardo di balestra o verrettone, molto diffuso dal XIV secolo in poi in tutta Europa.
Milano, ad esempio era uno dei più importanti luoghi di produzione di corazze, armi varie etc. che venivano esportate ovunque e ogni ordinazione di verrettoni, in particolare non era mai inferiore alle 180.000 unità.
I dati vennero confermati dalla datazione effettuata al C14 sui resti ossei.
Più di un laboratorio di Paleontologia, Antropologia, Scienze Ambientali, Medicina Legale in Italia e negli Stati Uniti venne coinvolto nella ricerca; si arrivò anche all’esecuzione di una vera e propria autopsia virtuale che mise in luce, sui reperti, la presenza di pupe di Ditteri cadaverici (mosche carnaie), facendo così ipotizzare che l’individuo non sarebbe stato seppellito immediatamente, bensì posizionato a terra per qualche giorno prima di venir lì inumato.
L’identità del cavaliere (come subito venne chiamato forse per via anche del medaglione ancora indecifrato rinvenuto tra i resti), le cause della morte e il seppellimento a posteriori, rimangono ancora da chiarire. Si è parlato di una possibile origine d’oltralpe, forse germanica, ma si resta ancora nel campo delle pure ipotesi.
I castelli dei Malaspina in generale, come pure quello dell’Aquila, sovrastante il borgo di Gragnola, hanno assistito, come è noto, a numerosissimi episodi di violenza, fatti di sangue, battaglie, guerre, scontri continui, coi vicini e meno vicini.
In particolare va ricordato che nei primi decenni del 1300 la Lunigiana, soprattutto nella parte orientale, subì forti tentativi di penetrazione dai parte dei lucchesi. Un chiaro esempio di ciò si ha con la cessione della fortezza della Verrucola, con relativa corte e villaggi all’interno del feudo malaspiniano, a Lucca appunto.
Fu la causa principale di una vera e propria guerra tra il Marchese Azzolino della Verrucola e Lucca che riuscì a costringere il rivale al patteggiamento. Stessa sorte toccò a Fosdinovo. Soltanto la venuta in Italia dell’Imperatore Arrigo VII impedì l’estensione egemonica di Lucca.
Così il marchese Spinetta della Verrucola poté recuperare i propri privilegi combattendo aspramente con Castruccio Castracani, riuscendo alla fine a unificare tutta la Lunigiana orientale.
Dall’alto della sua imprendibile e dominante rocca il Castello dell’Aquila, allora non ancora feudo, fu certamente teatro di queste vicende, entro le quali non è difficile collocare anche quella, ancora da dipanare completamente, dello scheletro col verrettone in bocca.