Anno 4 - N. 10 / 2005


LINGUAGGIO E MISTICISMO NEL MONDO ORGANISTICO DI BACH

“TUTTO SCORRE, TRANNE UNA COSA: LA RAGIONE PER CUI TUTTO SCORRE”

L’assenza di emotività immediata nella musica per tastiera di Bach è determinata dalla sostanziale immobilità del contenuto: manca il senso di caducità della vita, manca l’idea di un assoluto irraggiungibile, tutto è perfettamente presente e disposto nell’esprit di geometrie che domina ovunque

di Paolo Fenoglio




L’aspetto che maggiormente contraddistingue l’opera per tastiera del Kantor di Lipsia da ogni fondamentale testimonianza dell’arte (non solo della musica) è determinato dalla dimensione spazio-temporale in cui si svolge il pensiero di Bach.
Qualora vengano esaminate le componenti primarie dell’ arte, apparirà in modo esplicito come la struttura formale sia sorretta da una ben precisa dinamica interna: il divenire nello spazio-tempo del contenuto trattato, fenomeno che costituisce la tensione concettuale dell’arte. Il tentativo di fermare, tramite la perfezione espressiva, questo inarrestabile flusso rappresenta la dialettica essenziale insita nell’arte; a un elemento di carattere cristallizzante (la forma, che riduce in attimi contemplabili il divenire del contenuto), fa riscontro un elemento dinamico, che troverà pace solo nel compimento di ogni istanza logica, nella consumazione totale dell’idea.
Ma divenire significa anche soffrire, passare, morire, dunque il flusso concettuale dell’arte trascina con sé, nel suo corso simbolico, l’ombra del dolore, che però viene trasfigurata, quasi cancellata, dall’esatto disporsi della forma.
La Divina Commedia procede, nel suo svolgimento, secondo tali dettami; il tempo in cui si muove è un tempo assoluto, lo spazio è figurato, tuttavia il divenire sussiste e si compie soltanto nell’annullamento del divenire stesso, nell’eternità di Dio.
La Tetralogia di Wagner percorre un cammino inverso, il suo divenire si arresta nell’apocalisse finale, nell’eternità del nulla, ma anch’essa si era sviluppata in uno spazio-tempo mitico e simbolico.
I Prigioni di Michelangelo (per non tralasciare le arti figurative) si muovono in un divenire platonico: dalla materia alla forma, ovvero dal caos primigenio al soffio divino dell’idea, il loro tempo e il loro spazio sono quelli del divenire cosmico.
Il caso di Bach è del tutto diverso, probabilmente unico, in quanto lo spazio si riduce in lui a tempo, ritmo, numero e il tempo a sua volta non esiste, non diviene, non scorre, bensì persiste ed è dunque eternità. Eraclito lasciò scritto: “Tutto scorre, tranne una cosa: la ragione per cui tutto scorre”.
Mentre ogni grande opera d’arte esprime il divenire delle cose, il compiersi degli eventi (si pensi solo, oltre agli esempi già citati, a Shakespeare, a Omero, a Goethe, a Leopardi), Bach sembra esprimere la ragione del divenire universale, la causa astratta e immobile da cui procede l’ordine distributivo della vita. Non deve pertanto stupire se non è rintracciabile, nel pensiero del Kantor, il classico e consueto dissolversi dell’arte in un assoluto inesprimibile (Dante in Dio, Omero nel Fato, Proust nel Tempo, ecc.); Bach non può dissolversi nell’elemento in cui vivono le strutture stesse della sua mente, per lui è necessario il silenzio, la negazione della musica, l’astenersi dall’espressione, come infatti accade nell’Arte della Fuga, che termina incompiuta. Contrariamente a Dante, che conclude la Commedia affermando (dunque esprimendo) la totalità di Dio, Bach conclude la sua opera negando la sua stessa espressione, la musica, il suono: quella ragione immobile del divenire, che Bach pareva trasporre nelle geometriche proporzioni del suo monologo, ritorna a vivere nel silenzio.
Si giunge così al punto cruciale della questione: in Bach non esiste un divenire spazio-temporale, perché non esiste la pulsione divergente fra contenuto e forma cui si accennava all’inizio, bensì esiste una pulsione convergente, unilaterale, concentrica.
L’assenza di emotività immediata nella musica per tastiera di Bach è determinata dalla sostanziale immobilità del contenuto: manca il senso di caducità della vita, manca l’idea di un assoluto irraggiungibile, tutto è perfettamente presente e disposto nell’esprit di geometrie che domina ovunque.
Si può parlare di onnipresenza dell’Essere, di completa rivelazione dell’equilibrio divino, affermazioni che sembrano essere comprovate anche dalla persistente densità della pagina bachiana: non vi sono, come è noto, spazi vuoti, le stesse pause sembrano «piene» e suonano, il congegno è infinitesimale. Siamo in tal modo pervenuti a un’arte che non produce un divenire spirituale, ma una stasi; da qui ha origine la sua caratteristica teocentrica.
Risaliamo ora, punto per punto, le motivazioni dirette e indirette di questa musica, che non conosce le tinte drammatiche del tempo che scorre. Innanzitutto l’organo, strumento bachiano per eccellenza, le cui dimensioni sonore, fortemente plastiche e architettoniche, sono il frutto di una trasposizione analogica, in sede organistica, di ogni timbro musicale. Il motivo per cui tanto l’organo primeggiò nel barocco consiste nel clima culturale dell’epoca, preminentemente basato su di un criterio analogico, intuitivo.
Non erano ancora sorti i furori analitici dell’Illuminismo, che avrebbero portato l’unità del pensiero alla frantumazione: il sapere, ai tempi di Bach, si fondava su intuizioni preliminari, da cui procedevano deduzioni rigorose, logicamente concatenate. Così, in un certo senso, analogica era la resa organistica di ogni singolo registro; si potrebbe anzi definire l’organo come risultato di una grande allegoria timbrica, all’ interno della quale, però, i rapporti fra le molteplici parti erano concepiti secondo un rigore logico assoluto.
L’idea primaria che alimentava questa fede razionale (si ricordi l’ «amor Dei intellectualis» di Spinoza) era necessariamente di carattere metafisico: il mondo non era che un riflesso dell’ordine cosmico, ogni sfumatura qualitativa si riduceva in una precisa dimensione geometrica, oggettiva.
Da tali argomentazioni si arguisce, inoltre, come sia impossibile comprendere il mondo del barocco (e di Bach in particolare) avvicinandosi ad esso con criteri analitici, formalistici e strutturali, i quali sono frutto di un atteggiamento illuminista esattamente agli antipodi di quel mondo: in verità noi non siamo più capaci di concepire armonicamente fede e ragione, come avveniva nel barocco. Abbiamo attribuito alla ragione il dominio della libera ricerca umana e alla fede abbiamo solo concesso il crisma della speranza: il razionalismo metafisico di Spinoza e Leibniz (nella cui scia vive lo stesso Bach) aveva invece compreso benissimo come le due dimensioni si dipartono dalla medesima origine. Anche la peculiarità improvvisativa degli abbellimenti nonché dello stile toccatistico, nella letteratura per cembalo e per organo del barocco, testimonia la fede nell’intuizione, nel dato di pensiero presente alla mente che si esprime in sé e per sé, tralasciando qualsiasi elaborazione analitica. Totale certezza, in definitiva, del tramite diretto esistente fra l’ordine divino e la mente umana, che lo riproduce (come tutti gli esseri e le cose del mondo) per imprescindibile Necessità.
Questa coerenza etica e conoscitiva, priva di scissioni e di incertezze, perché dedotta da Dio, ci schiude la seconda fondamentale motivazione del nostro assunto circa l’immobilità spazio-temporale del pensiero musicale bachiano. La psicologia stessa di Bach sembra confermare tale costante: per quanto il trascorrere degli anni apporti al suo stile un crescente numero di peculiarità espressive, dovute all’assimilazione di ogni possibile matrice linguistica, il suo atteggiamento spirituale verso la vita resta immutato dai tempi dell’Actus Tragicus (cantata BWV 106, scritta a 24 anni) fino al labirinto mistico-geometrico dell’Arte della Fuga.
Dotato di un temperamento senza dubbio privilegiato, l’unilaterale saldezza di Bach fu però rafforzata dalla coscienza spirituale del tempo, di cui egli fu il testimone più elevato in sede estetica. Per quanto poi concerne il costante anelito di Bach ad un distacco dal mondo, sarà opportuno non tralasciare le sue vicende personali, spesso dolorose, specie nella giovinezza.
Il suo cammino a ritroso nella storia dei suoni (allo stile galante egli oppose il contrappunto speculativo delle ultime opere, una sorta di ascesi dell’arte attraverso la fede) riflette sì l’idea leibniziana di ripercorrere a ritroso l’ordine divino della creazione per giungere alle cause prime, ma rappresenta anche il frutto di un ben preciso «cupio dissolvi» spirituale e psicologico, di un profondo disgusto per la vanità del divenire.
Bach vuole l’immobilità come contemplazione e la realizza in una costruzione sonora scevra da ogni compiacimento del bello fine a se stesso. Siamo qui di fronte al concetto medioevale di «ars», intesa quale sintesi di scienza e arte, di verità e bellezza; dal cesello quasi artigianale del minuscolo alla intuizione dell’immenso, quest’alchimia prodigiosa informa di sé ogni pagina del Kantor, in particolare la sua produzione per tastiera (anche clavicembalistica) la più astratta, la più slegata da ogni vincolo, sia pur simbolico, col mondo umano (legame che sussiste nelle cantate e negli oratori). In fondo, sollevato ogni velo, vi è un aspetto eroico e drammatico nella figura di Bach: nessuno ha mai vissuto in sede artistica, come egli ha fatto, il costante rifiuto di una visione antropocentrica del mondo, rifiuto drastico, consumato -fino alle estreme conseguenze, fino al silenzio. Il dettato che Bach ci offre, battuta per battuta, raggiunge sicuramente i vertici più elevati del persistere di un’idea dilatata «sub specie aeterni»; si pensi solo alla Fantasia in sol maggiore (BWV 572), in cui, alla
massiccia potenza della seconda sezione, segue un vortice di arpeggi. Si pensi alla Passacaglia: segmento per segmento, egli realizza una sorta di doppia spirale, centripeta nella prima parte, centrifuga dall’inizio del tema fugato alla fine. Bach amava la figurazione della spirale, perché essa gli consentiva di costruire uno pseudo-divenire (il movimento concentrico), laddove egli voleva invece fermare il divenire in una ripetizione dell’ identico. Le frequenti inversioni del tema che si trovano nella produzione di Bach confermano questa tesi: esse rappresentano dei veri «risucchi» tematici, e pertanto concettuali, in cui egli prediligeva raffigurare il pensiero originario anche nel suo riflesso speculare. Ciò significa poter contemplare i dualismi antinomici della vita, come parti di un tutto immutabile: vita e morte, finito e infinito, particolare e universale. Giunti a questo punto, non è difficile spiegarsi la mancanza di un’emotività immediata nell’opera di Bach, anche se egli senza dubbio soffrì durante la vita. I procedimenti mentali di Bach erano fondati su di un criterio astraente, il dolore diveniva per lui un momento logico da tradurre in suoni; tuttavia questo dolore, sia pure decantato da ogni scoria emotiva personale, ci perviene e ci compenetra. Ciò accade perché ad ogni creazione artistica preesiste un processo di mitopoiesi, ovvero di trasposizione mitica dell’esperienza vissuta, processo che sortisce un preciso effetto, quello di assolutizzare il fatto vissuto come punto di riferimento ideale, purificato da qualsiasi residuo che lo vincoli a una dimensione contingente.
Questo procedimento può rivolgersi a una realtà di carattere autobiografico, vissuta concretamente (ad esempio la figura di Laura per il Petrarca, il Tempo perduto di Proust, le Ricordanze del Leopardi), oppure a una realtà più rarefatta che sentiamo vivere dentro di noi, come dimensione immanente alla coscienza. Quest’ultimo è il caso di Bach, il quale attuò una tale trasposizione mitica del concetto di ordine e di armonia, da elevarli al ruolo di scenario spirituale ove svolgere i contenuti della fede e del pensiero. In altri termini egli dilatò la sua concezione linguistica del mondo fino a colmare ogni spazio del pensabile, giungendo al paradosso di far coincidere preghiera e ordine, dolore e trasparenza, misticismo e logica. Passando ora alla sfera teologica, si troverà un altro dato che conferma la sostanziale immobilità spazio-temporale del pensiero bachiano. Va innanzitutto premesso che il luteranesimo giunge a Bach mediato dalla filosofia razionalista di Spinoza e Leibniz, la quale sovrappone ai contenuti della fede protestante un radicale «esprit de geometrie».
Nonostante ciò, la poderosa spinta del credo riformato non perde la sua pregnanza mistica; si manifesta semplicemente in modo diverso. Il caso più significativo di analogia fra luteranesimo e razionalismo è dato dalla continuità logica esistente fra la «predestinazione divina» protestante («servo arbitrio») e il concetto spinoziano di Necessità. Tuttavia alcune tematiche luterane pervengono ancora a Bach senza mediazioni, con particolare riferimento a due di esse: una riguarda la perenne presenzialità di Dio nella coscienza umana, che lo percepisce come «obbligazione pura» (secondo le stesse parole di Lutero); l’altra concerne la natura intima della spiritualità tedesca. «Dio esige sempre dall’uomo una totalità
indivisa. Egli non può accontentarsi se non della perfezione. Così deve essere, se Dio è veramente il Santo».
Queste parole del teologo Karl Holl definiscono perfettamente l’aspetto dell’etica luterana che più ha influito su Bach, contribuendo a creare nel Kantor quella sua drastica «totalità indivisa». Ogni idea di perfezione tende a realizzarsi nella completa immobilità e per servire Dio, come Bach intendeva, bisogna perseguire la perfezione, dunque rescindere ogni divenire: viene così ancora confermata la immobilità spazio-temporale del linguaggio bachiano.
Ma questa volta siamo nella dimensione spirituale che presiede del tutto alla traduzione espressiva, ovvero musicale, del contenuto di coscienza.
Vi è poi un’interessante considerazione da compiere intorno a uno dei fondamenti della spiritualità tedesca, che accomuna Bach e Lutero. Secondo la più intima religiosità germanica, il mondo è il regno del dolore (dello stesso demonio, dice Lutero) e l’uomo deve liberarsene per giungere alla luce divina, deve vincerlo; questa è la prova che gli viene chiesta. Bach la supera riducendo il mondo, come egli lo vive, in termini linguistici e facendo di questa riduzione un atto di fede. Egli sfiora l’abisso del nulla, astrae tutto sino a rasentare il vuoto, ma improvvisamente, da questo vuoto, sorge un mondo nuovo, inattaccabile dal divenire del tempo.
È una via mistica che vediamo ripetersi spesso nel corso della cultura tedesca, come peculiare eredità dello spirito luterano, secondo il quale è necessario sperimentare fino all’estremo il dolore del mondo, per rendere poi ancora più intensa e completa la catarsi.
La massima testimonianza che Lutero ha lasciato alla coscienza religiosa europea consiste nel vivere la comunione col trascendente non solo nei suoi aspetti beatificanti, ma anche in quelli terribili e disperati, imposti dall’inafferrabilità del «Deus absconditus».
Senza dubbio è fra questi elementi che dobbiamo cercare le leve fondamentali del tentativo bachiano di ridurre il mondo in esatte figurazioni, in un monologo inesausto, che si annulla nel gesto di rinuncia finale. Per il Kantor di Lipsia a quel punto (alludiamo all’Arte della Fuga) può esistere solo la perfezione di una musica stellare o la totalità del silenzio.
Non vi sono vie di mezzo, così egli vive la grande lezione impartita da Lutero. La composizione in cui Bach traspone alcune tematiche teologiche luterane con maggior precisione è costituita dalla Orgelmesse, i 21 corali dalla terza parte della Clavierübung.
Assistiamo qui al cammino dello spirito attraverso fede, speranza, pentimento e disperazione, il tutto corredato da un senso delle proporzioni miracoloso, che si esprime persino tramite simbolismi numerici di stampo pitagorico o cabbalistico. Ancora una volta religiosità luterana e concezioni filosofico-geometriche si fondono completamente.
Constatiamo questo riuscito sincretismo almeno in alcuni punti (analizzarli tutti sarebbe impresa da compiere in altra sede).
Il Kyrie-Christe-Kyrie che apre la messa consta di 163 battute, numero divisibile solo per 1 o per se stesso ed esprime l’unità indivisibile di Dio. In particolare il Kyrie iniziale è di 42 battute (42 sono le generazioni da Abramo a Cristo). Il Christe che segue presenta alla battuta 42 l’unica inversione del tema in tutto il brano (Cristo che viene sulla terra, ovvero il riflesso speculare di Dio).
Questo tema speculare è la 42esima entrata tematica dall’inizio della Messa. Il corale «Dies sind die heil’gen zehn Gebot» nella versione grande (con pedaliera) ha il cactus firmus in canone, perché si riferisce a Dio che rivela le leggi a Mosè (canone = legge). Il corale «Vater unser im Himmelreich» possiede un andamento ritmico cangiante, il che rappresenta la molteplicità dei peccati umani.
Non si pensi che i simbolismi citati siano frutto di pretestuose forzature dei nostri tempi: furono indicati dallo stesso Bach ed era cosa naturale in un periodo storico dove la dimensione analogica predominava, come diretta conseguenza di un pensiero filosofico sintetico e intuitivo.
Giunti alla conclusione con l’avere dimostrato, sotto diversi aspetti, l’immobilità del mondo linguistico di Bach, non possiamo tralasciare l’esistenza, all’interno di questo stesso mondo, di un movimento sistematico. Non si tratta però di un divenire spazio-temporale, bensì di un cammino prestabilito che si rinnova sempre, di un pellegrinaggio tonale. Esso attraversa, con esatte modulazioni, tutta una serie di tonalità come se toccasse i vertici di un perimetro, per poi tornare al punto di partenza, concluso il circolo, verificata l’immagine.
Questo movimento discreto e infinitesimale rende sereno e talvolta delicato l’incontenibile atto di fede di Bach e fa sì che la sua sembri una musica itinerante, un’orazione interiore recitata secondo proporzioni rigorose.
In verità tale fenomeno costituisce solo il volto sensibile di una musica che ha fissato il suo sguardo verso sfere astratte dell’Essere, per giungere alle quali non è necessaria alcuna espressione, bensì il silenzio.