Anno 3 - N. 9 / 2004
LA PIPA
APPUNTI A RUOTA LIBERA
«Fuma il cocchiere nella lunga pipa...»
di Gildo Criscuoli
L'uomo di Nizza (1918)
Amedeo Modigliani (Livorno, 1884 - Parigi, 1920)
Parigi, collezione privata
Un giorno, all’inizio degli anni ’70, mi trovavo a Venezia passeggiando lungo Le Mercerie quando, a un certo punto, mi fermai a guardare la vetrina di un bel negozio dove, proprio al centro, in posizione d’onore spiccava una splendida pipa di radica, liscia, fiammata, opera di un grandissimo artigiano di Cantù.
Era una pipa molto bella e mi sembrò un peccato lasciarla lì, quindi entrai nel negozio, osservai da vicino e da tutte le parti quell’oggetto meraviglioso, tirai sul prezzo e l’acquistai. Tornato a Milano dopo qualche giorno, iniziai a fumare quella pipa e mi accorsi che oltre ad essere bella era anche particolarmente buona.
Era anche la prima volta che mi permettevo di spendere una cifra così elevata per una pipa, ma col passare dei mesi dovetti riconoscere che ne era valsa la pena.
Mi venne perciò la voglia di saperne di più su questa marca di pipe e soprattutto sul suo produttore. Trovai la scusa che la pipa si era macchiata e mi presentai all’indirizzo di quella piccola fabbrica.
Chiesi di poter parlare con Carlo Scotti, il “Grande Vecchio”, a proposito di una sua pipa e in pochi istanti fui accompagnato nel suo studio. Fu un incontro incredibilmente piacevole, l’uomo era cortese ed intelligentissimo, dotato di un tratto aristocratico, accentuato dalla sua chioma folta e bianca, e desideroso di condividere la sua esperienza in fatto di pipe.
Il nostro colloquio durò in pratica solo poco più del tempo necessario perché i suoi eccezionali collaboratori mi restituissero la pipa come nuova, ma il “Grande Vecchio” riuscì a rivelarmi tante cose.
Per esempio mi disse che una pipa di radica fumata per lunghi anni diventa di sasso.
Davanti alla mia incredulità o meglio al mio scetticismo aprì un cassettino e ne estrasse una vecchia pipa col fornello infranto in più parti. La presi in mano e mi accorsi che nello spessore del fornello non c’era più legno ma una “spugna” minerale fragilissima: era come se la vecchia pipa si fosse fossilizzata!
Soltanto alcuni anni dopo riuscii a capire il perché di tale fenomeno. A quei tempi non c’era ancora Internet e dovetti aspettare di leggere casualmente che la pipa di radica non brucia (salvo se si sbaglia il rodaggio) perché il legno di cui è fatta è ricchissimo di minerali, tra cui il silicio.
Pertanto, con l’andare degli anni e col calore, la materia organica di cui il legno è composto si distrugge e quello che rimane è quasi solamente costituito da trabecole minerali. Per questo la pipa diventa leggerissima e facile a spezzarsi.
In effetti, in Francia si usa ancora oggi dire, per un personaggio fumatore di pipa che è passato a miglior vita, “Il a cassé sa pipe” cioè la pipa gli è sfuggita dalle labbra e si è frantumata, cosa che si ritiene non accada mai a chi fuma la pipa, finché è in vita.
Tuttavia, salvo casi eccezionali, la pipa di radica è robustissima, soprattutto se confrontata con le sue antenate, le pipe di gesso e quelle di schiuma di mare, per citare le più usate nei secoli passati.
In realtà le “pipe di gesso” non sono di gesso (solfato di calcio) ma di una miscela di silicato di alluminio (caolino) con sabbia silicea e perciò sarebbe più esatto chiamarle “pipe di terre bianche”.
Queste pipe erano diffusissime in passato: ad esempio tutte le pipe raffigurate nei quadri dei pittori fiamminghi del 1600 e del 1700 sono di gesso.
Molto pregiate erano quelle francesi, le olandesi, le inglesi e le belghe; se ne fabbricavano di diverso tipo, alcune con fornello, cannello e bocchino in un solo pezzo ed erano spesso lunghe o lunghissime. Esistevano speciali astucci di legno, a difesa della loro fragilità durante il trasporto.
Altre avevano solo il fornello di “gesso” mentre il cannello era di legno. Il fornello poteva essere liscio o scolpito a rappresentare personaggi famosi o animali.
Oggi ormai sono cadute in disuso benché sia possibile trovarne ancora in commercio, e le ragioni sono diverse. Hanno pessimo sapore da nuove, possono provocare dolorose scottature per l’alta temperatura esterna del fornello, e inoltre quelle di un solo pezzo necessitano di uno spago che sia avvolto strettamente tutto attorno all’estremità del cannello per evitare lo sgradevole contatto dell’argilla con i denti e oltretutto questo bocchino di emergenza va cambiato ad ogni fumata per motivi estetici e pratici.
Anche le pipe di schiuma di mare non hanno niente a che fare con la schiuma.
È probabile che l’etimologia di “schiuma di mare” venga dal francese “écume de mer”, termine con cui i naturalisti denominavano tutti i materiali che avessero una qualche origine marina, ad esempio le spugne, gli alcionari ecc…
La schiuma di mare utilizzata per le pipe è costituita di sepiolite cioè un silicato idrato di magnesio; la qualità più ricercata proveniva dai giacimenti di Eschi-Scher, l’antica Doryleum, in Anatolia. In genere il bocchino delle pipe di schiuma pregiate era di ambra proveniente quasi esclusivamente dalle rive del Mar Baltico.
Tutti gli esperti ritengono che la pipa di schiuma sia stata ideata verso il 1750 da un ciabattino di Budapest, certo Karol Kowater che ricevette dal conte Andrassy, di ritorno da un viaggio in Turchia, il compito di modellare alcune pipe da un blocco di schiuma.
Sembra che lo stesso Kowater abbia ottenuto, non si sa per quali vie, la ricetta già nota in Turchia, per il trattamento della schiuma necessario per poter resistere al calore della brace del tabacco. Le pipe lisce o scolpite devono essere trattate a caldo con cere, oli, grassi e bianco di balena. Sono proprio questi materiali di cui viene intrisa la massa porosa della schiuma di mare che consentono il noto magnifico annerimento di queste pipe noto col nome di “culottage”, soddisfazione più ambita per l’esperto fumatore.
Arriviamo finalmente alla pipa di radica. Sul primo numero (Anno1, numero 1 dell’Ottobre - Novembre 1965) della indimenticabile rivista “Il Club della Pipa”, fondata e diretta da Umberto Montefameglio, apparve un articolo scritto da Giuseppe Bozzini, giornalista, scrittore e fumatore di pipa, così intitolato: “Su di un aspro terreno sferzato dai venti marini nasce quell’arbusto che dà la radica”. Era un articolo dai toni epici che parlava del faticoso e talvolta eroico lavoro dei cioccaioli che si arrampicano (o forse dobbiamo dire si arrampicavano?) lungo gli aspri pendii dell’Appennino accompagnati dai muli con la botticella d’acqua; una volta arrivati nei luoghi appartati e difficili, intorno agli 800 metri, dove cresce l’Erica arborea scavano a mano il terreno che copre le radici dell’arbusto ed estraggono il ciocco con l’aiuto della marrescure.
Il ciocco è una escrescenza che nasce per motivi misteriosi sulla radice dell’erica; più è vecchio più è pesante fino a una cinquantina di chili e può arrivare a mezzo metro di diametro. Più è vecchio il ciocco e più è grosso, compatto, buono.
È questa la “radica” che dopo essere stata estratta, ripulita e caricata sui muli viene consegnata alle segherie che caveranno dai ciocchi gli abbozzi, cioè pezzi di legno di varia forma e varia dimensione da cui si sbozzerà la pipa.
L’Italia è particolarmente privilegiata per quanto riguarda la quantità e la qualità di radica, conosciuta in tutto il mondo. Da noi la zona di maggiore produzione è la Calabria, seguita dalla Sardegna, dalla Liguria, dalla Sicilia.
Al di fuori dell’Italia l’Erica arborea di buona qualità cresce spontanea soltanto in Grecia, in Algeria, in Albania, in Spagna, in Francia, in Corsica (fu proprio qui che si cominciò a fare pipe di radica).
Racconta la leggenda che intorno alla metà del XIX secolo in Corsica, un imprenditore francese in pellegrinaggio nella città natale di Napoleone ebbe la disavventura di rompere la sua pipa di schiuma. Disperato chiese a un artigiano locale di fargli una pipa in un legno locale; l’artigiano scelse la radica e il pellegrino francese ne fu contento e soddisfatto.
La Storia, senza contraddire la leggenda, dice che nel 1851 i signori Ganneval, Bondier e Donninger fondarono a Parigi la prima fabbrica di pipe di radica che col passare del tempo si specializzò nella produzione di pipe lisce e scolpite; di queste ultime, fra il 1871 ed il 1873, ne vendettero migliaia e migliaia che rappresentavano il volto di Thiers e Gambetta.
L’industria della pipa di radica in Italia nacque a Milano verso il 1887. Ben presto trovò il suo centro ideale intorno al lago di Varese e nell’alta Brianza.
In tempi più recenti, fabbriche di pipe prestigiose si sono sviluppate, grazie ad eccellenti artigiani, anche nelle Marche, in Toscana, nel Lazio. D’altra parte abbiamo in gran quantità la migliore radica del mondo e quindi è naturale che in Italia si producano pipe di qualità eccezionale, intendendo con questo indicare un insieme di fattori intrinseci ed estetici che determinano la bontà, la bellezza, l’equilibrio di una pipa e il suo prezzo.
E sì, la qualità ed il prezzo. Tutto ha origine dal ciocco di Erica arborea che nel suo lungo sviluppo ipogeo è sottoposto a mille pericoli: può inglobare sacche d’aria, sassolini, residui d’acqua che fanno cariare il legno, può essere ferito dalle pietre che incontra durante la sua crescita, può venire tarlato da larve di insetti. Tutti questi difetti, nonostante l’esperienza dei cioccaioli che fanno la cernita e la pulizia dei ciocchi prima di portarli alla segheria, si manifesteranno nella loro gravità solo al momento del taglio del ciocco, la selezione degli abbozzi e le prime fasi della fabbricazione della pipa.
Nella fase di taglio del ciocco gli scarti possono essere anche molto elevati, soprattutto se si sono lavorati ciocchi relativamente giovani. La selezione degli abbozzi si basa sulla dimensione, la presenza di venatura del legno e la sua direzione, l’età del ciocco e tanti altri dettagli che solo il tagliatore è in grado di valutare.
Con questa selezione gli abbozzi vengono divisi in ventisette gruppi in base alle loro caratteristiche e con prezzi proporzionali alla qualità. Una seconda cernita definitiva si farà al termine della bollitura per dodici ore in caldaie di rame dove il legno perde resine e tannini, che possono influire sul sapore della pipa, e la linfa che potrebbe causare la fessurazione del legno via via che questo perde umidità.
Gli abbozzi classificati per qualità e grandezza vengono poi avviati alla stagionatura, che può avvenire presso la segheria stessa o presso le fabbriche di produzione.
Questa fase è particolarmente delicata e dura circa due anni finché il legno non abbia raggiunto il 16% di umidità, ideale per le successive lavorazioni.
A questo punto, dopo le varie selezioni, è stata definita soltanto la qualità della futura pipa e si potrebbe già avere un’idea del prezzo del prodotto finito, ma solo in teoria! Infatti, nessuno sa con esattezza cosa si nasconda dentro l’abbozzo che si inizia lavorare: difetti, inclusioni, fessure, marciume, venatura che cambia più volte direzione o che addirittura scompare.
Di conseguenza la classificazione finale di una pipa viene fatta solo al termine della lavorazione della testa: le teste perfette, che nella realtà sono rare, avranno un prezzo elevato, le altre prezzi decrescenti in proporzione al tipo e numero dei difetti che presentano. Questo significa che dal punto di vista della bontà di una pipa, un piccolo difetto o qualche stuccatura superficiale non hanno alcuna influenza; invece ne hanno, eccome, dal punto di vista del prezzo della pipa finita.
Indipendentemente dalla loro forma, dritta, curva e semicurva, esistono in commercio due tipi fondamentali di pipe di radica: quelle lisce e quelle rugose. Essenzialmente, le prime si distinguono in naturali e verniciate, le seconde in sabbiate e rusticate o zigrinate.
La radica può mostrare venature e nodulazioni diversissime in una serie infinita di varietà, tanto che è impossibile trovare due pipe identiche. Tra queste varietà le più pregiate sono la “fiammatura” e “l’occhio di pernice” o “bird eye”.
Una bella pipa fiammata o “straight grain” presenta sul fornello una serie di sottili venature quasi parallele o leggermente divergenti, di tinta alternativamente più scura e più chiara, che decorrono in senso verticale dalla base al bordo superiore del fornello.
Una bella pipa a occhio di pernice invece mostra un disegno di piccoli noduli ovali o circolari, numerosi alla base del fornello vanno poi diradandosi verso l’alto in file parallele.
Le pipe lisce verniciate, cioè quelle pipe nelle quali la venatura è nascosta da pesanti mani di vernice (normalmente nera o rossastra), hanno sempre in sé un qualcosa di inquietante: evidentemente la vernice serve a coprire difetti e magagne e inoltre sigilla i pori naturali della radica. Lo stesso vale per le pipe rusticate, nelle quali cioè la rugosità è prodotta a mano o a macchina e poi verniciate. Tuttavia esistono delle pipe rusticate di gran pregio, lavorate con procedimenti particolari, atti a rendere il legno estremamente poroso e che infatti non sono verniciate.
Le pipe sabbiate invece sono realizzate sottoponendo le teste di radica a un getto di sabbia che erode le parti molli superficiali del legno lasciando le venature in rilievo. È un procedimento complesso, delicato che può essere eseguito solo da mani esperte.
Non tutte le teste sono adatte ad essere sabbiate: se la radica non è più che perfetta, il violento getto di sabbia penetrerebbe in ogni più piccolo foro allargandolo e smangiandone i bordi, deformando la pipa in modo irrecuperabile. Viceversa, una bella pipa sabbiata è spesso una pipa fiammata nella quale la fiammatura si può apprezzare in rilievo e contemporaneamente sentirla sotto le dita.
La pipa sabbiata, come le migliori pipe lisce, non è verniciata ma lasciata al suo colore naturale o tinta con coloranti vegetali e rifinita con cere, in particolare con cera carnauba. La pipa sabbiata è quindi altrettanto pregiata di una pipa di radica liscia.
Desidero concludere con un piccolissimo omaggio a un mio grande Maestro di Scienza e di amore per la Pipa: il Professor Eppe Ramazzotti.
Una sera del 1964, - eravamo studenti universitari – insieme a Francesco e Roberto mi recai in casa del Prof. Ramazzotti per avere da lui spiegazioni e dettagli sui diversi tipi di microscopi ottici allora in uso nei laboratori biologici. Lo trovammo sul suo bel terrazzo di Viale Vittorio Veneto a Milano dove aveva piazzato un telescopio per osservare il passaggio di satelliti artificiali; ovviamente non potemmo rifiutare di apprezzare il passaggio di un satellite ECHO che in quel momento stava transitando sopra la nostra testa.
Poi entrammo in casa e scoprimmo con sorpresa che il nostro Professore di “Biologia di Invertebrati di Acqua Dolce” era l’Autorità mondiale in fatto di Tardigradi, invertebrati microscopici che vivono nel muschio. Infine scoprimmo che egli era anche uno dei maggiori collezionisti ed esperti di Pipe (mi sento in dovere di scrivere Pipa con la P maiuscola, come ha fatto lui in tutti i suoi libri e nelle migliaia di dotti articoli sull’argomento).
Per ricordare il Prof. Ramazzotti non basterebbe un’intera enciclopedia, per cui mi limiterò a un breve cenno del fatto che, dopo averci mostrato la sua vastissima collezione di Pipe di ogni materiale, foggia, dimensione ed epoca, volle leggerci qualche brano del libro che nel 1935 aveva scritto e disegnato insieme a suo cognato Dino Buzzati. In particolare mi era sembrato molto fiero e quasi commosso del disegno e della poesiola che chiudeva il volume e che, con vera riconoscenza, qui voglio riportare.
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