Anno 3 - N. 9 / 2004
“SANT’AMBROGIO E LIBERTÀ”
L’AUREA REPUBBLICA AMBROSIANA
Nell’agosto del 1447 il popolo milanese insorse. I protagonisti di quegli eventi furono giureconsulti, filosofi o letterati e cittadini, nobili per animo e per censo, amanti della giustizia e della libertà.
di Enrico Resti
Ambrosino d'oro
1447 - 1450 (verso)
Alla metà del XV secolo, nella storia di Milano, vi fu un avvenimento di particolare importanza. Dal 1447 al 1450, nel periodo che va dalla morte di Filippo Maria Visconti (14 agosto 1447) all’avvento di Francesco Sforza nella Signoria di Milano (24 marzo 1450) la città ebbe un governo repubblicano, ricordato come quello della “Aurea Repubblica Ambrosiana”, che durò soltanto trenta mesi.
Solo studi relativamente recenti hanno chiarito meglio le vicende di quel periodo, perché nei secoli scorsi la mancanza di fonti documentarie ha reso difficile la ricostruzione degli avvenimenti di quegli anni. Innanzitutto i reggitori della nuova repubblica, nell’euforia del momento, non seppero o non vollero opporsi alla furia distruttrice del popolo che disperse l’Archivio Ducale Visconteo e saccheggiò gran parte dei beni materiali e immobiliari dei sostenitori del precedente regime. Anche Francesco Sforza, dopo la sua entrata in Milano, fece distruggere nell’archivio della Repubblica quei documenti che rivelassero intrighi o illegalità compiuti per conquistare il Ducato. Gli stessi governanti repubblicani, nei primi due mesi del 1450, fecero eliminare molte carte riguardanti i loro rapporti con lo Sforza o gli insuccessi del loro governo. Infine nel 1525 e nel 1795 molti atti dell’Archivio di Stato relativi a quel periodo andarono distrutti da incendi. Fu possibile, soltanto a distanza di secoli, dopo indagini accurate, ricostruire i fatti di quel periodo consultando archivi privati di famiglie nobili e di notai dell’epoca.
Dunque nell’agosto del 1447 il popolo di Milano, stanco dei lunghi anni di oppressione e di tirannide, insorse sotto la guida di un gruppo di nobili intellettuali che proclamarono la Repubblica al grido di “Sant’Ambrogio e Libertà”.
Nei primi mesi vi fu un periodo di confusione e di incertezze perché, alla caduta dei Visconti, gli Aragonesi, Venezia, l’imperatore di Germania, i Gonzaga e lo stesso Francesco Sforza, che aveva sposato Bianca Maria Visconti figlia di Filippo Maria, avanzarono pretese sul Ducato Milanese, che furono però subito rintuzzate dai nuovi governanti con varie argomentazioni di carattere giuridico o col ricorso alle armi.
I protagonisti di quegli eventi furono giureconsulti, filosofi o letterati, come Giorgio Piatti, Giorgio Lampugnani, Antonio Trivulzio, Teodoro Bossi, Bartolomeo Moroni, Vitaliano Borromeo ed altri cittadini, nobili per animo e per censo, amanti della giustizia e della libertà.
Esigenze di spazio non ci consentono di analizzare dettagliatamente gli avvenimenti di quel periodo. Ci limiteremo a ricordare il riassetto giuridico istituzionale e amministrativo della Repubblica, la politica economica e finanziaria, le principali vicende militari, i provvedimenti di carattere sanitario e tesi a moralizzare la vita del popolo e, infine, l’istituzione dell’Ateneo Milanese, il famoso “Studium Generale”.
Le funzioni del defunto Duca passarono ad un Consiglio di 24 “ Capitanei et Defensores Liberatis excelsae et illustris Comunitatis Mediolani” (quattro per ciascuna delle sei Porte di Milano: Orientale, Nova, Cumana, Vercellina, Romana, Ticinese ognuna delle quali aveva un proprio Governatore). I primi eletti appartennero alle famiglie più importanti di Milano. In seguito i Capitani eletti sortirono anche dai ceti popolari, dai mercanti e dai militari.
Depositario della sovranità popolare rimase il Consiglio Generale dei 900, le cui funzioni, che furono formali ed irrisorie sotto il dominio visconteo, divennero sostanziali in campo amministrativo e politico sotto la Repubblica. Furono eletti 150 cittadini per ciascuna delle sei Porte, scelti fra i migliori per censo, per cultura e competenza. Rimase in funzione il Podestà, scelto fra persone non milanesi.
Furono poi nominati i Capitani di Giustizia, che esercitavano il potere giudiziario, i Maestri delle Entrate, i Sindaci, per controllare i bilanci, e i XII dell’Ufficio di Provvisione, massimo organo amministrativo della Repubblica, con a capo un Vicario, che poteva sostituire il Podestà in caso di assenza o impedimento, e che era coadiuvato da magistrati, funzionari, notai ed esperti in materie varie connesse alla vita della comunità (vettovaglie, strade e ponti, acque, pedaggi, dazi, frodi).
Le milizie erano guidate da Capitani del Popolo e formate da elementi stabili del territorio, ma soprattutto da mercenari o mestieranti, comandati da Capitani di Ventura, facili a cambiare padrone e a tradire, a seconda del miglior pagatore. Basti ricordare i nomi dello stesso Francesco Sforza, di Carlo Gonzaga, di Bartolomeo Colleoni, di Francesco e Jacopo Piccinino, dei Fratelli Sanseverino, di Luigi dal Verme.
Possiamo concludere dicendo che, mutata la situazione politica con l’istituzione della Repubblica e con l’avvicendamento di uomini nuovi, rimase pressoché in vita l’impalcatura burocratica dello Stato Visconteo.
Dopo l’insurrezione, la folla si scatenò in manifestazioni di intolleranza, in distruzioni e saccheggi. Furono atterrati il Castello di Porta Giovia, gli edifici costruiti dai Visconti o dai loro amici, bruciati tutti i registri delle tasse e del catasto ed inventari, con evidenti enormi danni per la vita economica e finanziaria dello Stato. I governanti tentarono di correre ai ripari introducendo la “dichiarazione volontaria dei redditi”. “Ciascuno, giusta le sue possibilità, contribuisca al Tesoro di S. Ambrogio e al pagamento delle genti d’arme”. Ma il provvedimento fu insufficiente e pertato fu costituita una Commissione di trenta esperti “ad taxandos quoscunque cives tam civitatis quam ducatus, in eis pecuniarum quantitadibus, quae eis videbuntur”.
È certo che la preoccupazione maggiore dei governanti fu la difficile e compromessa situazione finanziaria che andò sempre peggiorando nonostante i rigorosi provvedimenti presi, come la disciplina dei dazi, la confisca dei beni dei ribelli, la concessione di alti interessi su prestiti allo Stato, la vendita dei beni immobiliari già appartenuti ai Visconti, il ricorso nel febbraio 1448 ad una lotteria, la istituzione di una moneta nuova l”Ambrosino”. I risultati furono però deludenti soprattutto perché le spese di guerra assorbirono gran parte delle disponibilità del bilancio.
Il triennio quindi non fu affatto tranquillo per la precaria situazione economica e per il continuo stato di guerra con Venezia ed i suoi alleati, con i Savoia, col Marchese di Monferrato, i Francesi e i Genovesi, contese in cui ebbero parte attiva i citati Capitani di ventura e i mercanti, preoccupati per i loro commerci compromessi e facilmente indotti a condurre trattative segrete con il nemico.
Nel secondo anno, col rinnovarsi delle cariche e l’alternarsi di diversi eletti, altri rappresentanti del popolo ed appartenenti a varie fazioni presero il sopravvento sui nobili e sugli intellettuali. In tal modo la gestione della Repubblica ebbe a subire periodi di instabilità, di ristrettezze, di sospetto e persino di terrore per il predominare di intriganti e di profittatori e e per l’allontanamento dei fondatori della Repubblica, uomini onesti, attivi e generosi, ma spesso privi di senso realistico.
È però innegabile che la loro azione di governo fu comunque positiva e lo testimoniano i moltissimi provvedimenti, contenuti nelle famose “gride” in materia sanitaria, di politica economica, di assistenza ai poveri, di lotta contro le malattie e soprattutto contro l’epidemia di peste, sul riassetto delle opere pie e dei benefici ecclesiastici, sul ripristino della moralità nei rapporti sociali, il tutto per far fronte ai gravi problemi annonari, militari e finanziari. Il Gridario dell’epoca è testimone dei molteplici interventi per raddrizzare il difficile cammino dei governati.
Non va dimenticato che nel campo della cultura si ebbe nel 1448 l’istituzione a Milano di una Università, il “Glorioso Studio Generale”. Alcuni illustri cittadini milanesi, come Giovanni Litta, Franchino Castiglioni, Niccolò Arcimboldi, Antonio Bernareggi, Guarnerio Castiglioni e Antonio da Sesto, furono incaricati di dar vita all’Ateneo milanese. Ci rimane il Rotulus pro doctoribus et aliis legere debentibus in felici Studio Mediolanensi in presenti anno 1448. I docenti di diritto civile e canonico, di medicina, di filosofia, di retorica e di matematica iniziarono i loro corsi nel marzo del 1448, ma l’iniziativa non ebbe vita felice sia perché Pavia, città datasi allo Sforza, voleva mantenere il primato dell’istruzione superiore, sia per la scarsità dei mezzi assicurati dai governanti, nonché per la modesta entità dei salari corrisposti. A ciò si aggiunga la già ricordata situazione economica fallimentare a causa dei capovolgimenti politici e militari.
Comunque, nel triennio, furono tenuti in grande considerazione gli studi, le arti e le lettere. Basti ricordare i nomi di Pier Candido Decembrio, del Filarete, di Giuseppe Brivio, di Maffeo Vegio, di Gasparino e Guiniforte Barzizza e di Bartolomeo Moroni, di Erasmo Trivulzio, di Teodoro Bossi, di Giorgio Piatti e di Guarnerio Castiglioni, nel campo del diritto e delle lettere.
Nel Duomo, nelle chiese e nei palazzi cittadini furono assicurate opere di grande valore artistico da parte di scultori, pittori e architetti.
Frattanto alle porte di Milano incalzava Francesco Sforza che, aspirando da tempo a divenire Signore del Ducato, aveva nei mesi precedenti tradito i Milanesi ed era passato al soldo dei Veneziani (pace di Rivoltella) e poi a quello del Duca di Savoia. In Milano e nelle città alleate aveva favorito con la corruzione il sorgere di un forte partito a lui legato e manu militari aveva conquistato la città e castelli appartenenti ai milanesi, tagliando così tutte le vie di comunicazione e di rifornimento delle derrate alimentari per prendere i milanesi per fame.
Il suo ingresso a Milano, preparato da tempo dai suoi fedeli e preceduto da carri di pane e di vettovaglie avvenne il 26 febbraio 1450 e un mese dopo (il 24 marzo) vi fu la solenne cerimonia di acclamazione del nuovo Duca e di investitura dello Sforza quale Signore di Milano.
Ebbe così fine la Repubblica milanese, anche per colpa dei governanti, animati da grande amor di patria e di libertà, ma da scarso senso realistico, ostacolati da intrighi degli appartenenti alle varie fazioni e da una parte della popolazione sobillata da amici dello Sforza.
Bisogna ammettere che l’avvento al potere di Francesco Sforza fu forse la più naturale ed indolore soluzione alla difficile situazione economica e militare che era venuta a crearsi in Milano. Egli fu un abile diplomatico ed un condottiero militare di indiscussa competenza che, con sagacia ed astuzia, e soprattutto con corruzione ed opportunismo, concluse a suo vantaggio l’impresa.
Quella Repubblica che nei desideri dei suoi fondatori doveva essere “Aurea e gloriosa” ebbe così una fine ingloriosa, ma rimane nella memoria dei milanesi e dei numerosi cultori della sua storia, il ricordo di uno sfortunato tentativo di ripristino degli ideali di libertà e di lotta alla tirannide.
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