Anno 3 - N. 9 / 2004


SOCIALITÀ NEL TEATRO EUROPEO

I PERCHÈ DI UNA DIFFUSIONE CHE DURA DA SECOLI

Le origini legate a forme rituali e secondo altre interpretazioni alla spettacolarizzazione del potere o alla rappresentazione di fasi critiche e fondanti la società

di Emanuela Scalpellini




“Teatro” è un termine che deriva dal greco “théatron” (da “guardare”), che indicava sia il luogo dove era rappresentato lo spettacolo, sia l’insieme di spettatori che vi assistevano. Fin dalle origini, caratteristica di questa forma artistica è dunque il suo aspetto sociale, pubblico, che si mantiene pressoché inalterato nel corso di molti secoli. Altro elemento distintivo, infatti, è la sua straordinaria diffusione in tutte le epoche e in tutti i paesi, sia pure in forme diverse (performance, recita, danza). Da cosa derivi questa diffusione, è un interrogativo al quale molti studiosi hanno cercato di dare una risposta.
Una prima teoria spiega la diffusione del teatro con la sua derivazione da antichi rituali sacri o magici, che implicano una performance pubblica e la ripetizione simbolica di cerimonie e di gesti specifici. Gli spazi sacri, spesso circolari, dove tali rituali erano espletati, erano in genere delimitati da pietre o altri elementi artificiali (si pensi ai circoli megalitici, fra cui Stonehenge). Con il tempo si arriva ad una maggiore differenziazione fra le aree riservate agli spettatori e quelle riservate alla performance, come si nota ad esempio negli scavi di Knosso a Creta, dove presso il palazzo reale si estende un ampio spazio aperto lastricato, collegato a gradinate. Il passo successivo è la nascita di edifici specializzati: tradizionalmente si ritiene che il primo teatro sia stato costruito sull’acropoli di Atene nel VI secolo a.C., quando Pisistrato istituì i concorsi drammatici per i festeggiamenti religiosi delle grandi dionisiache.
Altri studiosi hanno supposto che la diffusione del teatro e il suo successo siano dovuti al fenomeno della spettacolarizzazione del potere. Il potere si esercita infatti attraverso l’uso della forza, ma anche attraverso la persuasione e per fare ciò deve mostrarsi, farsi vedere, fare spettacolo. Si pensi all’importanza dei cerimoniali, agli spettacoli associati ad eventi come matrimoni, incoronazioni e funerali reali, ma anche – ai nostri giorni – ai cerimoniali ben visibili nell’incontro dei potenti (come ci ha mostrato David I. Kertzer). Da qui deriverebbe la spinta a questa forma d’arte: non a caso il potere costituito ha molto spesso sostenuto e finanziato direttamente il teatro.
Un’altra teoria sottolinea come il teatro abbia analogia con la vita sociale. Sociologi come Erwing Goffmann hanno suggerito che sulla scena si ricoprano “parti” esattamente come nella vita sociale; anche la società può essere vista come una sorta di rappresentazione, con i suoi rituali, simbolismi e linguaggi. Il teatro è quindi uno “specchio reale” della nostra esistenza sociale e insieme un luogo dove si possono apprendere i ruoli che siamo chiamati a “recitare” nella realtà.
Esiste poi una teoria che rappresenta una versione estremizzata della precedente. L’antropologo Victor Turner sostiene che la performance riproduce i valori profondi della società e soprattutto mette in scena i momenti di grave crisi sociale, religiosa, politica, per realizzare una sorta di riparazione rituale. Un esempio che si potrebbe portare di tale posizione, tratto dalla cultura nordamericana, è la “danza dello spettro”, un movimento religioso diffusosi dalla metà dell’Ottocento tra gli indiani delle Pianure e delle Praterie, da poco sconfitti, che si riunivano per invocare il ritorno dei morti e le condizioni di vita precedenti. Un altro esempio è il “mito del cargo”, studiato da Peter Worsley in Melanesia. Qui, all’inizio del Novecento, le antiche credenze sul ritorno degli dèi dal mare vengono stravolte a favore di una complessa cerimonia, nella quale gli indigeni attendono l’arrivo di grandi navi cariche di beni tecnologici e di armi, guidate dai loro antenati, ai quali sarebbero state rubate dai bianchi: in tal modo si sarebbe potuto restaurare l’antico ordine e cacciare i colonizzatori. Per tornare in Europa, la tragedia Edipo re di Sofocle rappresenterebbe, seguendo Freud, la proiezione mitica degli inizi della convivenza civile, quando, dopo l’uccisione del re-padre, per amore della madre, si impongono le norme sociali e i divieti che sono alla base della religione e della morale.
Quale che sia la tesi più convincente, come dicevamo all’inizio, la storia del teatro europeo pare segnata da un filo rosso: la sua socialità, vale a dire il suo rapporto continuo e diretto con la realtà, anche politica, del momento. In Grecia, dove le rappresentazioni erano interne a festeggiamenti religiosi, il teatro aveva una primaria importanza nella vita politico-sociale della comunità. Nelle tragedie di Eschilo, Sofocle e Euripide si riaffermano i valori fondanti della civiltà greca, tanto che i protagonisti echeggiano spesso eroi e personaggi storici esemplari o, addirittura, (come nei Persiani di Eschilo), l’opera rappresenta un’indiretta celebrazione della Grecia contemporanea. Nelle commedie la vita quotidiana appare ancora più direttamente; particolarmente apprezzate erano le critiche agli uomini pubblici e le invettive contro i politici corrotti (si pensi ad Aristofane). Il teatro era considerato utile: dal V secolo gli attori tragici erano stipendiati dallo Stato e godevano di grande prestigio.
Roma riprende le forme del teatro greco, con esponenti di primo piano come Plauto e Terenzio, introducendo forse un maggiore gusto per la spettacolarità: gladiatori ed equilibristi riscuotevano più successo degli attori drammatici nelle rappresentazioni miste rappresentate negli anfiteatri (“doppi teatri”). Anche qui lo spettacolo era gratuito e libero per i cittadini, ed era compito delle autorità allestire spettacoli di tutti i tipi, quali giochi con gladiatori e belve feroci, contornati da grandiose scenografie; naumachie, cioè battaglie navali; balletti acquatici con i mimi in teatri dove veniva allargato lo spazio destinato all’orchestra.
Con la caduta dell’impero romano, in tutta Europa viene meno la funzione dello Stato come sovvenzionatore di spettacoli e, per tutto il medioevo, il teatro incontra l’opposizione della Chiesa, eccezion fatta per le Sacre rappresentazioni, inscenate all’aperto e dal secolo XII spesso in volgare. Ad esse si affiancano spettacoli di strada, con giullari e buffoni, che daranno origine alla commedia dell’arte. Sarà nelle corti italiane dell’Umanesimo di fine Quattrocento che maturano, in occasione delle feste cortigiane, nuove forme di rilancio del teatro profano, specchio della recuperata centralità dell’uomo e della società nella cultura. Qui avrà origine infatti il cosiddetto “teatro all’italiana”, un edificio specializzato con fondali dipinti e una netta separazione dello spazio scenico tra orchestra e spettatori, poi diffusosi in tutta Europa insieme al gusto per il melodramma (l’opera di Andrea Palladio ne è forse l’esempio migliore). In breve, nuovi spazi teatrali fioriscono in altre parti d’Europa: nell’Inghilterra elisabettiana si sviluppa un edificio circolare, con gallerie sovrapposte, aperto anche all’interno e con un palcoscenico rialzato (che riprende la forma del cortile, comune anche in Spagna). Tale scena è utilizzata per gli spettacoli drammatici, ma anche per altri tipi di rappresentazioni popolari (nel famoso teatro Globe, dove Shakespeare presenta le sue opere, uno degli intrattenimenti più apprezzati era il combattimento dei galli).
Il Seicento è il gran secolo del teatro europeo. Appaiono sontuosi edifici pubblici, cresce l’interesse del pubblico, si moltiplicano straordinari autori ed attori. Ciò in concomitanza con l’affermarsi dei nuovi stati assoluti e delle fastose corti dei monarchi: lo stile barocco delle loro feste ben si addice al teatro e alla celebrazione del potere assoluto del re. Non a caso, proprio le grandi monarchie europee vedranno la massima fioritura del teatro. In Spagna è il Siglo de oro della letteratura e del teatro, con autori come Lope de Vega, Tirso de Molina, Calderón de la Barca. In Gran Bretagna William Shakespeare propone, a cavallo del secolo, le sue straordinarie opere ambientate in epoche storiche lontane e paesi diversi, secondo il gusto esotico e fantasioso proprio della sua epoca, incentrate su figure “eccessive” nel bene e nel male. Nonostante l’universalità del suo messaggio, il teatro shakespeariano non perde però il rapporto con il mondo contemporaneo: le tensioni rappresentate in Amleto rispecchiano le tensioni presenti alla fine del regno di Elisabetta I. In Francia, dopo Corneille, si fa strada la figura dell’attore-autore Molière, nelle cui opere la critica alla società coeva è ancora più aperta. I suoi personaggi si fanno beffe di figure tipiche dell’epoca, come l’ipocrita (Tartufo), il libertino (Don Giovanni), l’avaro (Arpagone), le donne nei salotti (nelle Preziose ridicole) e si scontrano più volte con i rigori della censura.
All’epoca del barocco segue un’epoca di rinnovamento e riforme, con l’Illuminismo settecentesco. Anche il teatro è contagiato da tale febbre (in Italia, ad esempio, Goldoni attua la sua riforma della commedia e Alfieri cerca di fondare un teatro tragico italiano, mentre si afferma l’opera musicale con Metastasio). Tra Settecento e Ottocento vengono alla ribalta i paesi germanici, alla ricerca di un retaggio culturale che faccia da collante in vista di un’unificazione politica. Se Goethe con Faust simboleggia la ricerca della perfezione e si ispira a ideali universali (anche se molti hanno colto nell’attivismo del protagonista un riflesso dell’incipiente rivoluzione industriale contro gli antichi valori), Schiller è il cantore nazionale del popolo tedesco, il celebratore delle lotte d’indipendenza dei popoli tedeschi (in Guglielmo Tell). In realtà, con la Restaurazione nuovi valori si diffondono in tutto il continente europeo, sull’onda del Romanticismo e del Naturalismo: un nuovo interesse per la storia patria, la riscoperta delle tradizioni nazionali, la valorizzazione degli interessi contemporanei. Nascono esperienze teatrali come quella del teatro di Wagner a Bayreuth, che progetta un ambiente in grado di accentuare la finzione teatrale e creare un nuovo rapporto con il pubblico (il “golfo mistico”). A motivazioni non differenti risponde anche l’affermazione dell’opera in Italia, con Donizetti e soprattutto Verdi, massima espressione della borghesia italiana risorgimentale e interprete del suo tempo ben più del coevo teatro drammatico. Contemporaneamente troviamo in Francia una generazione di grandi naturalisti, che descrivono con crudezza i guasti della società davanti ai loro occhi (Hugo, Dumas, Balzac), seguita da un’incredibile fioritura del teatro commerciale “da boulevard” (con Scribe, Sardou, Labiche), che fissa i canoni di tali produzioni in tutta Europa per decenni.
Il Novecento può invece essere caratterizzato come il secolo delle inquietudini. Esso inizia con la sfida delle avanguardie (a cominciare dal futurismo) e prosegue con la nascita della regia e la ricerca di nuovi spazi e forme teatrali. Il senso di crisi del nuovo secolo è ben rappresentato da autori come il norvegese Ibsen, che mostra i conflitti psicologici dei personaggi moderni (in Casa di bambola, Nora si ribella al suo ruolo di moglie-bambina; in Spettri si smaschera la rispettabilità di facciata della famiglia borghese); o da autori russi, come Cechov e Gorkij, e britannici come Shaw e Wilde. In Italia questa crisi è presentata, ai suoi estremi, da due personaggi come D’Annunzio e Pirandello. Il primo avanza una nuova concezione del teatro: vuole richiamare la forza della tragedia greca, unendo parole, musiche e danze per ricreare un’atmosfera magica. Un esempio ne è La città morta, che ripropone il valore del “mito” come risposta alla crisi della società. All’altro estremo troviamo Pirandello, che vuole invece dare voce direttamente alle sue angosce: il difficile rapporto tra convenzioni sociali e realtà (come in Enrico IV, dove il protagonista può vivere un’esistenza autentica solo sotto la maschera della follia); l’esistenza o meno di un’unica “verità” (come in Così è (se vi pare), dove l’identità della signora Ponza muta di continuo); o i confini tra finzione e realtà (come in Sei personaggi in cerca d’autore, dove finzione scenica e mondo reale si sovrappongono e confondono).
Nella seconda metà del secolo, il ruolo centrale della regia e la ricerca di nuove soluzioni tecnologiche non portano alla scomparsa del teatro “tradizionale”. Al contrario, se dovessimo trovare una connotazione specifica, questa è la forte presenza di un teatro politico (i cui antesignani sono Brecht e Piscator), a partire dalle sperimentazioni degli anni ’60, con significative esperienze anche in Italia con Pasolini e Dario Fo. Allo stesso tempo prosegue la vena del teatro che esemplifica le angosce esistenziali del tempo in rapporto alla società (dal teatro dell’assurdo di Sartre e Camus a quello dell’incomunicabilità di Beckett, ai quali si possono aggiungere autori italiani come De Filippo e Testori), e continua pure il favore del pubblico verso le produzioni prettamente commerciali. Un aspetto accomuna tutte queste diverse espressioni: la percezione del teatro come forma d’arte che per la sua “socialità” riveste un ruolo importante nella società. Esattamente come avveniva duemila anni fa, quando Platone ammoniva sulla potenza, e la pericolosità, dell’arte. Nella sua Repubblica ideale, di fronte all’artista perfetto, ci si doveva inchinare “come davanti a un essere raro e santo e dilettevole”; ma non gli si poteva permettere di restare: “l’ungeremo con la mirra e gli porremo un serto di lana sulla testa, e lo manderemo via, in un’altra città” (Repubblica, 398).