Anno 3 - N. 9 / 2004
NELLA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI
CARITÀ E INVIDIA
Il simbolismo del cuore negli affreschi di Giotto.
di Alvaro Vaccarella
La chiesa della Beata Maria Vergine della Carità dell’Arena a Padova sorge su un terreno che comprendeva i resti di palazzi antichi, di bagni caldi, di due torrioni e dell’antica arena romana. L’aveva acquistato nel 1300 Enrico, figlio di quel Reginaldo degli Scrovegni che Dante aveva collocato all’inferno insieme ad altri peccatori, rei di una colpa ai suoi occhi particolarmente grave ed odiosa: l’imprestar soldi ad usura. I lavori ebbero inizio immediatamente e nel volgere di circa 3 anni il nuovo edificio era già completato e aperto a culto. Fu allora chiamato uno dei maestri più celebrati del tempo ad affrescare la volta e le pareti. Giotto iniziò i lavori il 25 marzo del 1303 e li concluse due anni dopo. Il Maestro dipinse sulle pareti della cappella scene di vita della Vergine e di Gesù a sviluppo narrativo ed elementi architettonici, come zoccoli alti in finto marmo e nicchie. Sull’intera parete di fondo, l’artista immortalò un’unica maestosa scena: quella del Giudizio Universale dove, fra l’altro, si vede raffigurato lo stesso Scrovegni che dona alla Madonna un modellino della cappella.
Sul carattere espiatorio di questo tempio eretto, come viene esplicitamente dichiarato da Enrico al Vescovo nella supplica per ottenere il permesso di edificare la chiesa, al fine di strappare l’anima del padre alle pene del purgatorio, molto è stato detto e scritto. Altrettanto dicasi sull’assoluta bellezza dell’opera pittorica, ancora oggi, a sette secoli di distanza, in grado di emozionare lo spettatore: commenti e osservazioni sarebbero semplicemente ripetizioni di idee e sensazioni già ampiamente espresse e pubblicate. Vale però forse la pena di appuntare la nostra attenzione a quegli alti zoccoli e nicchie in finto marmo a cui poco sopra abbiamo fatto cenno. Sono raffigurati, in queste nicchie, le personificazioni dei vizi e delle virtù. Si tratta di quattordici figure: sette sulla parete di destra, che è il lato del paradiso e rappresentano la Prudenza, la Fortezza, la Temperanza, la Giustizia, la Fede, la Speranza e la Carità. E sette a sinistra, di fronte alle prime, dove possono essere riconosciute la Disperazione, l’Invidia, l’Infedeltà, l‘Ingiustizia, l’Ira, l’Incostanza e la Stoltezza, i vizi che, proseguendo lungo il muro conducono al lato del giudizio Universale dove sono raffigurate le anime dei dannati.
Poste l’una di fronte all’altra stanno la Carità e l’Invidia. La prima è rappresentata come una fanciulla che con la mano destra regge un paniere colmo di fiori e frutta, e che con la sinistra offre (e contestualmente riceve) il proprio cuore nelle mani di Dio. L’iscrizione che accompagna l’immagine è Cor quod latet id secreto- Cristo dat. La seconda è una vecchia che in una mano tiene stretto un sacchetto di monete e dalla cui bocca esce un serpente che l’acceca Le parole sottostanti sono andate quasi tutte perse, ma ancora si riesce a leggere: patet hic cecae invidiae. Del resto l’etimologia del sostantivo pare essere in-videa cioè non vedo poiché questo sentimento acceca, impedisce cioè una corretta visione delle cose del mondo.
L’accostamento di Carità e di Invidia quale suo opposto trae fondamento da fonti letterarie diverse. La trattatistica antica cui i pittori si ispiravano per la rappresentazione simbolica di ciò che veniva loro commissionato non è giunta sino a noi. Gli studiosi oggi fanno riferimento all’Iconologia di Cesare Ripa (fine del sedicesimo secolo), un manuale con le prescrizioni per gli artisti che volevano dipingere la personificazione di una grande varietà di concetti, molti dei quali tratti dall’ Emblemata di Andreas Alciatus (1531) che a sua volta riportava i precetti dei suoi antecessori.
Il fil rouge che unisce i due opposti sentimenti è il simbolismo legato al cuore. La Carità dona il proprio cuore a Dio. L’invidia mangia il suo stesso cuore. Questa seconda immagine deriverebbe, secondo i filologi, dall’interpretazione di due passaggi dalle Metamorfosi di Ovidio, anche se una sua specifica descrizione non compare esplicitamente nei testi del poeta latino.
Secondo Benvenuto da Imola (1330c. -1387c.), inoltre, il cuore è la casa dell’invidia, ma non è necessario rappresentarlo (il cuore) perché si deve sottolineare in questo modo che l’invidia è il vizio più nascosto.
È curioso notare come in questa raffigurazione dell’Invidia vi sia l’unico riferimento al possesso dei soldi (la vecchia tiene ben stretto il sacchetto con le monete). Il significato allegorico è che va attribuita importanza all’uso che si fa della propria ricchezza, e non al modo con cui questa viene accumulata. L’invidia porta a tenere ben stretti i propri averi, anziché impiegarli per opere di bene. L’avarizia, comprensibilmente, non è inclusa fra i vizi raffigurati da Giotto nella Cappella fatta erigere da Enrico Scrovegni per espiare i peccati del padre usuraio.
Dalla scelta di includere l’Invidia fra i vizi principali che portano all’inferno non sembra estranea la polemica mossa dai vicini monaci agostiniani, custodi della Chiesa degli Eremitani che, come possono constatare quanti si recano a visitare gli affreschi, sorge a breve distanza dalla prima, essendone a questa precedente. Vedendo sorgere un edificio le cui proporzioni superavano di gran lunga quelle della cappella votiva, i frati nel gennaio del 1305 scrissero al vescovo una lunga lamentela nella quale veniva sottolineato come la nuova costruzione fosse stata eretta più per la pompa, la vanagloria e la ricchezza, che per la preghiera, la gloria e l’onore di Dio.
Fortunatamente queste critiche non ebbero conseguenze e la sola risposta che ottennero rimane affrescata e ancor oggi è visibile sulle pareti della Cappella degli Scrovegni, e per noi è un’altra testimonianza di come il simbolismo del cuore sia stato e rimanga tuttora centrale nella nostra cultura.
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